Lo so, è lunghetta, ma fatevi un favore e leggete per capire meglio uno dei dischi top del 2017.
Nel 2015 i
Trial sono stati davvero una grande scoperta per me. Autori di un album magnifico, subito finito sul podio di quell'anno, il loro "
Vessel" è un disco che ascolto ancora con piacere e non smette di emozionarmi. La personalità di questi svedesi mi aveva colpito nel saper riproporre, a modo loro, una commistione di suoni doom, classico heavy, oscurità, sprazzi black, il tutto in un contesto epico e malinconico.
Sul fatto che potessero ripetersi ero fiducioso ed oggi, finalmente, posso parlare del nuovo "
Motherless", un disco che ho ascoltato parecchie volte prima di potermi fare un'opinione definitiva.
Già da qui si può capire che si tratta di un disco non immediato, più ostico del suo predecessore seppur non rivoluzionario. Ma vediamo di entrare più nel dettaglio.
Cazzo, detta così sembra un documentario. Vabbè...
Passati alla prestigiosa
Metal Blade, i cinque svedesi mettono insieme otto brani, alcuni dei quali potrebbero tranquillamente far parte del sopracitato predecessore, altri rappresentano nuove sfacettature sonore. La
title track,
Aligerous Architect ed il singolo
Cold Comes the Night sono pezzi marchiati a fuoco dal loro stile inconfondibile, complice il cantato quasi operistico, alto ed acuto ed il riffing stratificato ed elaborato. Proprio le strutture sovrapposte delle linee di chitarra, questi contrasti e cambi repentini richiedono più passaggi per essere assimilati. Ad esempio, avevo giudicato il singolo rilasciato un mesetto prima dell'uscita di "
Motherless" come un po' troppo pretenzioso e caotico. Con la dovuta calma è poi stato assimilato dalla mia mente malata e posso garantire che questa, come le altre tracce nominate poco sopra, funzionano molto bene.
Altra cosa da sottolineare, in questo disco abbiamo un basso molto presente (mai troppo secco) che va ad ispessire bene il suono e, più che in passato, si riescono a seguire benissimo le sue linee frequentemente in contrasto con quelle delle chitarre, oppure slegate, indipendenti.
Ci sono poi gli altri pezzi, quelli un pochino più atipici, brani lenti e dal sapore doom, come
Juxtaposed dalle linee contrastanti, brani come i sei minuti di
Birth fatti di soli arpeggi e canti gregoriani, oppure come la conclusiva
Rebirth, quasi totalmente acustica dove ancora gli arpeggi sono spezzati dal vento e la malinconia prende il controllo. Canzoni che fanno respirare ed inseriscono l'ascoltatore sempre più all'interno di quel vortice di arte e musica che propone la band.
Anche se non c'è un concept dietro al disco, è davvero forte la sensazione di compiere un viaggio spaziale, ultraterreno attraverso rabbia, malinconia, tristezza e potenza. Sensazione che si amplifica fissando lo stupendo artwork di
Costin Chioreanu (un artista sempre più sulla cresta dell'onda) a cui è stata data carta bianca: "ascolta il disco e disegna quello che ti suggerisce". Fatto. Per quanto riguarda i testi, i Trial preferiscono non dare suggerimenti o interpretazioni ma vogliono lasciare libero l'ascoltatore di trovare la propria strada. Dopotutto l'arte non ha bisogno di essere spiegata. Quella di comporre un album complesso e multisfaccettato (come accennavo all'inizio) è proprio una sfida che la band affronta di volta in volta; a loro piace che l'ascoltatore scavi, scopra e ricordi una musica senza tempo. Ai Trial non interessa avere pezzi o ritornelli memorizzabili in un paio di passaggi, pensano che se un disco "sprigioni" tutto subito poi la gente si stanchi si annoi e finisca per riporlo dimenticatoio.
Queste ultime righe derivano da uno scambio di battute avvenuto tra me e Martin (il batterista) quindi non è uno dei miei vaneggiamenti, potete fidarvi.
In appendice segnalo inoltre che la band ha dovuto recentemente cambiare leggermente il proprio nome in
Trial (Swe) (come Svezia, ovviamente) per evitare problemi di vario tipo, ed è stato creato anche un nuovo logo (quello che vedete sulla copertina) che contiene al suo interno, appunto, la dicitura "Swe", in piccolo, sul pallino della "i".
In definitiva, "
Motherless" non è un album che fa saltare sulla sedia come il suo predecessore, ma è un affresco che si rivela poco alla volta, ogni passaggio deposita un colore, uno strato e solo col susseguirsi degli ascolti mostra il suo splendore. Sicuramente qualcosa di più personale di mille mila band-clone che girano là fuori, una goccia d'arte in un mare piatto ed incolore.
Fatevi un favore, immergetevi nella musica.