A sette anni di distanza dallo splendido "
Return to Heaven Denied Pt. II - A Midnight Autumn’s Dream" esce oggi, 21 aprile 2017, l'ottavo album dei
Labyrinth "
Architecture of a God", un album per cui ad esser sincero non nutrivo alcuna particolare ansia.
Come sarà, come non sarà, sarà all'altezza, sarà discreto, sarà una delusione, sarà un già sentito...tutto chiacchiericcio da bar o giusto battage pubblicitario ma quanto alla qualità della musica proposta dai
Labyrinth non c'era proprio nulla su cui discutere o scervellarsi. Era pressochè ovvio che "
Architecture of a God" sarebbe stata un grandissima prova, eccellente, come quasi tutti i dischi che lo hanno preceduto, con qualche rarissima eccezione in ogni caso sempre ampiamente valida ed interessante.
E così è stato, in questi quasi due mesi di ascolti ininterrotti (un grazie anche alla
Frontiers che si dimostra una label attenta ed intelligente, che non pretende una recensione in 24 ore di frettolosissimi e distratti ascolti) ma non necessari per un reale apprendimento: "Architecture of a God" non è un disco che cresce con gli ascolti, non ne ha bisogno, è un disco che pur non essendo preda di facilonerie o banalità conquista immediatamente, sin dal primo approccio, e colpisce ancor prima che per il suo impatto per la sua eleganza e classe, trademark della coppia
Cantarelli/Thorsen, insite nella soave poesia delle linee vocali, esaltate ancora una volta da un'intepretazione di
Tiranti incredibile, e supportate dal resto della band in maniera impeccabile:
Nik Mazzucconi al basso è entrato pienamente negli schemi della band,
Macaluso alla batteria è una assoluta garanzia e conferisce grande dinamismo, menzione d'onore per
Oleg Smirnoff che non solo è il mio tastierista preferito ma è, come si dice tecnicamente, "un cazzo di mostro" e credo che questo possa bastare.
"
A New Dream", "
Bullets", "
Someone Says" e "
Take on my Legacy" sono stati i quattro brani presentati nella lunga anteprima di questi mesi e rappresentano il giusto riflesso del disco nella sua globalità, un lavoro meno frenetico del passato, con tempi mediamente più misurati, tanta melodia "intelligente", un album estremamente raffinato ed elitario ma non altezzoso, nel complesso un disco elegante e che sa ammaliare e far sognare sin dai primissimi ascolti, anche con la lunga ed enigmatica titletrack che rappresenta un po' la summa della proposta dei Labyrinth e ne cattura a pieno il talento e l'espressività.
Per noi figli degli anni '80 e cresciuti nei '90 c'è anche il tuffo nostalgico indietro nel tempo con la cover di "
Children" di
Robert Miles ("
We Belong to Yesterday", mi sento di citarli...), prima delle emozioni sussurrate da "
Those Days" e del delicato congedo gilmouriano di "
Diamond" che chiude un disco meraviglioso, che non fa altro che invitarci ad un ennesimo "repeat", invito che accettiamo con malcelata gioia.
Tra nani, parrucconi, mascherati e meretrici che ormai insozzano sempre più la nostra adorata musica, è sempre una fresca boccata di puro ossigeno potersi ristorare nella musica dei
Labyrinth: considerare successivamente, durante gli ascolti, che tanta meraviglia proviene dall'Italia ci fa emergere un sorriso soddisfatto e compiaciuto.
Ma, come detto, non ne avevamo il benchè minimo dubbio.
Bentornati.