Forti della tutela artistica garantita dalla nobile storia della loro città d’origine (Birmingham) e di un discreto
curriculum underground (Mistress, Fukpig, Sally, Burden of the Noose), i
Kroh si riaffacciano nel saturo mercato discografico contemporaneo con una
line-up rinnovata e un disco, questo “
Altars”, che non esito a definire un piccolo gioiellino di musica decadente, morbosa e immaginifica, dagli imponenti effetti emozionali.
Il clima di sacrale paganesimo, strutturato su cupe e gravi visioni
doom metal e capace al contempo di estendere le sue velleità espressive fino a comprendere avvincenti pulsioni
dark/wave (se non addirittura a lambire i confini del
trip-hop, come avviene in “
Cold”, un “esperimento” assai riuscito, meritevole di ulteriori evoluzioni …), esalta la vocalità magnetica di
Oliwia Sobieszek, davvero abile nel catalizzare i sensi e competere senza eccessivi imbarazzi con le sue colleghe più celebrate nel medesimo ambito stilistico.
Così, se apprezzate The Oath, Avatarium (i primi, in particolare) e Bathsheba il mio suggerimento è di non trascurare questi “nuovi” epigoni dei capiscuola dell’oscurità
settantiana, sottolineando quanto la loro prova sia intensa e temperamentale, incurante dei
trend e molto attenta a non trasformare la devozione in una sterile forma di trascrizione.
Tra sinistre e leggiadre malie soniche (“
Kryzu swiety”), macigni di dramma e inquietudine (“
Mother serpent”, “
Break the bread”, “
Stone into flesh”, “
Precious bones”), aperture solenni e arcane (“
Living water”) e perniciosi grumi di perversione (l’oscurità pulsante e marziale di “
Feed the brain” e la strisciante “
Malady”), il programma avvolge l’astante in un cerchio “magico” e conturbante da cui è praticamente impossibile sfuggire.
Alimentati da un’innata ispirazione e da stille di creatività in un settore ben poco “dinamico”, i
Kroh rispondono pienamente alle esigenze dei cultori delle atmosfere crepuscolari e cavernose … in una parola, “impressionanti”.
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