Ascoltare il nuovo
Hanging Garden è stato un pò come ordinare una prosciutto e funghi in una delle tue pizzerie di fiducia. Nell’istante in cui ti viene servita, però, il cameriere si scusa e riferisce che i funghi sono finiti. Non ti resta dunque che mangiarti una prosciutto cotto e… basta, che pur essendo buona sprigiona ad ogni boccone lo spiacevole retrogusto dell’occasione mancata.
Se mi passate la discutibile metafora culinaria (e vi consiglio di farlo se intendete seguitare nella lettura, poiché temo di volerla utilizzare ancora) trovo che ad “
I Am Become” vada attribuito il medesimo sapore di soddisfazione monca: nulla di immangiabile, ma nulla di sopraffino.
Si potrebbe partire dallo stesso titolo (che vorrebbe suonare come una profonda dichiarazione d’intenti ma finisce per sembrare soltanto lo strafalcione grammaticale di uno studente discolo), passando poi per l’
artwork di copertina (tanto pregevole quanto scevro d’incisività estetica o impatto emotivo), terminando la carrellata con la produzione (la cui formale correttezza non basta a celare un amalgama sonoro spesso algido e dai suoni di batteria troppo chiusi).
Nemmeno ciò che più conta, ossia le composizioni, sfugge all’andazzo del “bene ma non benissimo”.
Col nuovo album, ancora una volta per
Lifeforce Records, assistiamo ad una parziale retromarcia rispetto agli aneliti
dark rock del predecessore “
Blackout Whiteout”, rinvenendo quindi, nei tre quarti d’ora abbondanti di durata, ampio spazio di manovra per trame
doom e
death melodico -con tanto di
growling-.
Una manovra in senso assoluto non disprezzabile, e purtuttavia indicativa di una bussola artistica non ancora tarata alla perfezione.
Ciò che ne consegue, almeno a mio avviso, è una irresolutezza nel
songwriting, più che ispirato direi intrappolato dalle troppe influenze:
Katatonia,
Swallow the Sun,
Novembre,
Anathema,
Paradise Lost,
Moonspell,
November’s Doom sgomitano per trovare spazio all’interno di composizioni troppo spesso ancorate alla formula del
mid tempo atmosferico e troppo di rado graziate da melodie memorabili.
Finiscono così per inficiare la
tracklist episodi trascurabili come “
Earthfire” e “
Our Dark Desing” (dalle strofe prive di mordente), “
Kouta” (le cui velleità moderniste risultano in realtà vecchissime) e “
From Iron Shores” (un tempo i finnici riuscivano perfettamente a suonare cattivi e introspettivi al tempo stesso, ora invece…).
Già, me ne rendo conto: il voto a margine pare incongruo a fronte di cotali e cotante doglianze, ma non è così. In fondo gli
Hanging Garden sanno fare il loro lavoro, ed anche quando ispirazione e chiarezza d’intenti latitano la pagnotta riescono a portarla a casa (penso soprattutto al plumbeo incedere del singolo “
Elysium” e all’evocativa linea vocale con cui si conclude “
Ennen”).
Il sottoscritto, che frequenta l’esercizio sin dai tempi dell’apertura, continuerà pervicacemente a cenarvi, pur consapevole che la sapienza culinaria degli esordi sembra evaporata, e che i pronostici di grandezza dovranno con ogni probabilità esser rivisti al ribasso. D’altro canto, auspico una pronta inversione di tendenza a partire dal prossimo appuntamento, anche perché la fiducia non è illimitata e di pizzerie buone è pieno il mondo…
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