Nel variopinto mondo della musica estrema il progetto
Botanist è sicuramente uno dei più particolari e "strani".
Da un lato il concept che gira intorno ad una sorta di divinizzazione della natura con tanto di testi dedicati a piante e fiori, dall'altro una proposta che mescola in modo particolare rozzo black metal, shoegaze e stracci di folk senza l'ausilio delle chitarre che vengono sostituite dal salterio a percussione, antico strumento medievale, che fornisce al suono una personalità, e dunque una riconoscibilità, assolutamente fuori dalla norma.
Con queste premesse è evidente che anche il nuovo
"Collective: The Shape of He to Come", quinto lavoro di lunga durata per
Botanist e primo rilasciato da
Avantgarde Music, sia un album sui generis, difficilmente paragonabile ad altro.
Un album, tra le altre cose, che segna un passo importante nella carriera dei nostri:
Otrebor, il deus ex machina di
Botanist, ci spiega, infatti, che per la prima volta il risultato finale è frutto della collaborazione tra diversi musicisti tanto che, da adesso in poi, si potrà parlare di gruppo e non più di one man band come successo finora con l'ovvia conseguenza che lo spettro espressivo dei
Botanist si apre ad altre personalità ed altre sfaccettature.
Partendo dal concept, questa volta più filosofico che in passato,
"Collective: The Shape of He to Come" è un lavoro in un certo modo sognante, caratterizzato da momenti di dolce melodia che vengono alternati a partiture dissonanti, a volte a limite della cacofonia, nelle quali le percussioni del salterio e le ottime linee di basso descrivono melodie schizzate e sinistre che ben accompagnano le urla che prorompono dal microfono in un contesto di certo estraniante e originale che non possiamo che definire, come fa
Otrebor,
green metal, con tutto l'approccio ecologico che c'è dietro al termine.
Sicuramente l'ascolto della proposta di
Botanist non è materia semplice.
Le chitarre non ci sono ma quasi non si capisce.
I ritmi cambiano frequentemente senza nessuna, apparente, logicità.
Improvvisi momenti folk, quasi al limite del dream pop con tanto di bellissima voce femminile, fanno capolino in mezzo alla violenza del metallo nero.
L'infrastruttura delle percussioni domina in lungo ed in largo in maniera quasi ossessiva.
Insomma, tutto è concepito per essere "diversi" e per rendere il proprio messaggio il più forte possibile.
La cosa bella è che il tutto porta ad un risultato più che apprezzabile, in questo disco come dei precedenti, tanto che il gruppo di San Francisco è di certo una delle cose più interessanti uscite dall'America negli ultimi anni e bene ha fatto la nostra
Avantgarde ad assicurarsene le prestazioni... e bene farei io a consigliarvi di dare un ascolto, attento, a questo album in modo da scoprire, se non altro, qualcosa di peculiare che, probabilmente, non avete mai ascoltato prima.
Poi non so se vi piacerà.
Però provateci.
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