Non poteva essere più incisivo il ritorno degli
Orphaned Land, cinque anni dopo il controverso
"All Is One". Il mito della caverna di Platone diventa lo spunto per una riflessione a 360° sul mondo che ci circonda, sulla propaganda, sulle distorsioni di un'informazione mirata e controllata, come perfettamente spiegato da
Kobi Farhi durante l'
intervista rilasciata al nostro portale.
Non nascondo di essere partito prevenuto nei confronti di
"Unsung Prophets & Dead Messiahs". Quando si cominciò a vociferare di ospiti e comparsate tra me e me pensavo:
"ecco, poche idee, male assortite, i guest servono giusto a metterci una pezza".
Niente di più sbagliato. La nuova opera degli israeliani scorre che è un piacere, le composizioni sono solide e superbamente arrangiate, e il concept dona quella patina "nobile" che non potrà non trovare il favore dei fan della band.
L'introduttiva
"The Cave" è già di per sé un manifesto dei "nuovi"
Orphaned Land: gli arrangiamenti grandiosi di
"All Is One" si fondono con l'intensità di
"Mabool" e
"The Never Ending Way Of OrWarrior" dando vita a una moderna rock opera degna dei nomi più blasonati del genere. Torna prepotentemente il growl (
"We Do Not Resist", "Only The Dead...", con l'ospite
Tomas Lindberg degli At The Gates), si apprezzano intrecci chitarristici ben congeniati (
"In Propaganda") così come i riferimenti progressive della band (
"All Knowing Eye", o l'opethiana - periodo
"Damnation" -
"Chains Fall To Gravity", con un magico assolo di
Steve Hackett). Ovviamente non mancano gli episodi prettamente oriental (
"Yedidi") o semplicemente più immediati (l'epica
"Like Orpheus", con il cameo di
Hansi Kürsch, o
"Left Behind", tipica traccia da headbanging). La teatralità caratterizza anche l'ultima parte del full-length: se
"My Brother's Keeper" è più recitata che cantata,
"The Manifest - Epilogue" non avrebbe sfigurato come sottofondo per la chiusura di un sipario.
Oltre ogni mia più rosea aspettativa.
Non è ancora stata scritta un'opinione per quest'album! Vuoi essere il primo?