Dopo l'avvio corale, piuttosto ingenuo a dire il vero, i
Silent Assassins iniziano a far velocemente sul serio con
Alan Tecchio che ci ricorda come sappia ancora aggredire il microfono, e che i bei tempi degli Hades non sono finiti nel dimenticatoio. Tuttavia "
Masters of the Hall" non mi pare un pezzo esaltante, e nemmeno all'altezza della fama e della capacita dei musicisti coinvolti, su tutti quelle del loro ideatore:
Mike LePond, storico bassista dei Symphony X, con un sacco di altre collaborazioni (Distant Thunder, Ross the Boss...) all'attivo.
Meglio, molto meglio, le seguenti "
Black Legend" (decisamente priestiana) e "
Antichrist", canzoni più complete, un bel compendio di quanto proposto negli anni '80, sia dalla scena Made in USA sia nella vecchia Europa, con un
Alan Tecchio decisamente più versatile di quanto ricordassi, peccato solo che la mancanza di un vero batterista si senta in maniera piuttosto evidente.
"
I Am the Bull" sembrerebbe più che altro avere lo scopo di dare a
Mike LePond la possibilità di togliere la polvere dalle corde del suo basso, e pur cercando poi di creare pathos resta un episodio interlocutorio e frettoloso. Tocca poi ad "
Avengers of Eden" e "
Hordes of Fire", dalla struttura e sviluppo molto simili e legati al Power & Speed Metal a stelle e strisce, con le chitarre di
Rod Rivera (sulla prima) e del grande
Michael Romeo (sulla seconda) a lasciare il segno.
Spiazzanti invece le soluzioni di "
The Mulberry Tree", con i suo fraseggi folk e medievaleggianti alla Blackmore’s Night, ma nemmeno la conclusiva "
Pawn and Prophecy" fa dell'immediatezza la propria arma vincente. E' nuovamente
LePond a marcare a fuoco le prime battute della titletrack, una lunga suite ispirata al “Macbeth" di William Shakespeare’s (e comunque ogni canzone è legata ad un episodio letterario), che, forte delle undici parti di cui si compone per oltre venti minuti di durata, alterna passaggi sostenuti ad altri più ragionati, articolati e sorprendenti (come il break Blues, il momento morriconiano ed il finale Scottish), tra i quali fanno capolino le vocals delle varie special guest (la più nota
Veronica Freeman dei Benedictum) che si alternano a
Tecchio. Indubbiamente il punto più alto del disco, quello che fa la differenza, pur senza trionfare.
Un album non facile, sicuramente da ascoltare più volte, anche nella speranza che più passaggi spazzino via quella sensazione di freddezza e diffidenza che talvolta si lascia dietro.
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