Il mio approccio con
Terminal Redux è stato mediamente schizofrenico, devo riconoscerlo.
Ecco le impressioni che avevo riportato all'epoca sul nostro beneamato e gloriosissimo forum:
19.05.2016: me ne sto innamorando;
11.07.2016: riascoltato di recente un paio di volte di fila: bello eh, ben fatto, tecnico, aggressivo, ma non mi ha preso a livello di stomaco per il momento;
14.07.2016: si sta consolidando con i passaggi.Sono trascorsi oltre tre anni, nel frattempo il mastermind
David DiSanto ha passato qualche guaio, la band è collassata (seppur ufficialmente ancora attiva nella sola persona del riccioluto padre-padrone) e io ho deciso di riprendere questo disco per rendergli a tutti gli effetti giustizia.
Non che lo avessi maltrattato, per carità, ma evidentemente non ero riuscito ad entrare subito in completa sintonia con un'opera che, debitamente esplorata, palesa una qualità compositiva ed esecutiva francamente superba.
A conti fatti, credo di poter dire che qui dentro risiedano alcuni momenti di pura estasi musicale, che annovero senza dubbi tra i più belli (e che più volte ho riascoltato con ripetuti rewind... e rewind... e rewind) dell'ultimo lustro, anche se è l'insieme nel suo complesso che viaggia a velocità ed altezze elevatissime.
Techno-thrash di ispirazione sci-fi? Se proprio riteniamo necessario attribuire un'etichetta perché siamo schematici impuniti e catalogatori compulsivi, questa forse è quella che più si adatta; il fatto però è che nei 70 minuti abbondanti di Terminal Redux si trova soprattutto del grande metal, classico eppur moderno, nipote più che figlio di
Voivod ed ultimi
Death, capace in ogni caso di camminare perfettamente sulle sue gambe scegliendo da solo la strada da percorrere.
Sì, perché se le strutture portanti sono immediatamente e solidamente identificabili, le atmosfere di volta in volta gelide, rarefatte, opprimenti, ariose, suonano talmente fresche da assumere un sapore quasi progressivo (passatemi il termine, l'Italiano è una lingua ricchissima ma non sono riuscito a trovare un sinonimo più confacente), regalandoci schegge di genio & follia.
Se volete farvi un'idea, prendete
Charging The Void, che apre il cerchio, e
Recharging The Void, che lo chiude con una maestosità quasi commovente; poi sappiatemi dire.
Voce al vetriolo, cori di stampo epico-spaziale, riffing tagliente e spigoloso, incastri solisti cesellati a meraviglia, stacchi mozzafiato, partiture intricate ma che scorrono incredibilmente liquide, ritmiche telluriche (e furiose quando serve) ma sempre precise al millimetro: qui dentro c'è tutto questo e tanto altro che è quasi impossibile da descrivere, perché sfocia nel campo dell'emozione uditiva e lì come fai a spiegare cosa, come e perché?
Mi e ci auguro di cuore che
DiSanto rimetta in sesto la sua creatura e pubblichi prima o poi un nuovo titolo; se così non dovesse essere, e la carriera dei
Vektor dovesse fermarsi qui, appena al terzo lavoro, sarebbe al contempo un gran peccato e un commiato col botto.
Chapeau.
Recensione a cura di
diego