"Uno su mille ce la fa", diceva quello. Tra i tantissimi "nati tardi" dell'ultimo decennio (
Wolfmother, Greta Van Fleet,
The Golden Grass, tanto per fare tre nomi) gli olandesi
DeWolff sono sicuramente tra gli alfieri più credibili di un certo modo di fare musica che guarda sì al passato ma con una creatività e una perizia tutte moderne.
Alla base, ovviamente, non possono non esserci delle composizioni solide, e di queste
"Thrust" è senza dubbio zeppo. Aggiungiamo poi che il trio dei fratelli
Van De Poel suona da paura e viene da sé come il nuovo full-length della band - decisamente maturata dalle origini a oggi - possa piacere anche al sottoscritto.
Già dall'introduttiva
"Big Talk" si capisce che i
DeWolff non prediligono le soluzioni scontate, né sul fronte delle timbriche né su quello delle dinamiche. Anche quando viene citato smaccatamente
Hendrix (
"California Burning", un po' blues e un po' southern) non me la prendo più di tanto, perché prelude a una gemma sonora dal gusto soul intitolata
"Once In A Blue Moon" dove
Robin Piso dà il meglio di sé. C'è spazio anche per momenti più disimpegnati (
"Couble Crossing Man" o
"Swain", una specie di
"Drive My Car" marchiata
DeWolff) o per certi accorgimenti pomp-rock alla Styx (i cori di
"Tombstone Child"), ma sono deviazioni momentanee in un album costellato di influenze ben più nobili (
"Deceit And Woo" mi ha ricordato
Jeff Beck,
"Freeway Flight" ha qualcosa di
Joe Cocker,
"Tragedy? Not Today" mette a sistema i Creedence Clearwater Revival e gli Eagles,
"Sometimes" rievoca la psichedelia dei Vanilla Fudge di
Mark Stein).
È una commovente
"Outta Step & Ill At Ease" di memoria pinkfloydiana a chiudere un lavoro convincente dove il rétro-rock - che per quanto mi riguarda ha sempre avuto un'accezione semi-dispregiativa - non è più semplice omaggio ma la consapevolezza di un'eredità musicale da cui attingere per elaborare qualcosa di nuovo e diverso.
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