Diciamolo subito, a scanso di equivoci … con i
Dead City Ruins continua la saga dei propugnatori dell’ortodossia
hard-rock, degli emuli di Led Zeppelin, Black Sabbath, Thin Lizzy e Cactus.
Nel caso in cui siate contrari a siffatte operazioni di “riconoscenza” e di evidente filiazione potete anche interrompere la lettura e rivolgervi alla vostra fidata collezione di “classici”, sicuri di riascoltare per l’ennesima volta chi ha alimentato le “fonti” primigenie del genere.
Agli
integralisti ricordo però che tale approccio non avrebbe consentito di “scoprire” gente come Soundgarden, Black Stone Cherry, Wolfmother e Rival Sons, e segnalo che sebbene i nostri australiani siano ancora un po’ lontani dal poter competere sul piano artistico con tali felici “restauratori” della tradizione, il percorso intrapreso in questo “
Never say die” sembra essere quello giusto.
La voce comunicativa di
Jake Wiffen (una “specie” di
Ozzy che ha preso lezioni di canto da …
Chris Cornell …) e la notevole perizia tecnica dei suoi compagni d’avventura forniscono una prova parecchio convincente e danno la misura di quanto abbiano appreso dai loro numi tutelari in fatto di calore e sensibilità esecutiva.
Considerazione analoga può essere estesa anche al
songwriting, sempre abbastanza incisivo e capace di miscelare con notevole disinvoltura e freschezza
hard,
blues,
stoner,
grunge e
doom.
Brani del calibro di “
Devil man”, “
Bones” e “
The river song” (molto suggestiva l’ambientazione “sudista”) oppure ancora come la variegata “
Lake of fire” e la brillante “
Rust and ruin”, con il suo emozionante crescendo emotivo, riescono nell’impresa di celebrare proficuamente e, in qualche modo, “rinverdire” quei suoni tanto adorati e familiari.
Per tracciare solchi indelebili nelle scaltre anime dei
rockers di lungo corso sarà verosimilmente necessario aggiungere al quadro complessivo un pizzico di suppletivo carisma, ma sono altresì convinto che anche per costoro sarà molto difficile rimanere completamente impassibili di fronte all’intensità espressiva e alla credibilità d’intenti dei
Dead City Ruins.
“
Never say die” non garantisce sommi livelli d’eccellenza e ciononostante vale sicuramente il “rischio” di un ascolto attento, stimolati da quella “curiosità” che non deve mai mancare tra le doti fondamentali di ogni
musicofilo che possa definirsi tale, compresi quelli più smaliziati, magari ormai un po’ disillusi dalla stagflazione della scena contemporanea.
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