Mai avrei pensato, in vita mia, di esaltarmi così tanto per una band spagnola, visto che ho sempre ritenuto la scena iberica un gradino più in basso rispetto a quelle di paesi come la Germania, l’Inghilterra o l’Italia stessa, e invece ho dovuto ricredermi ascoltando l’ultimo lavoro degli
Angelus Apatrida. Il quartetto di Albacete, infatti, in barba ai miei pregiudizi ha dato prova di aver capito come si costruisce un ottimo disco thrash senza cadere nel banale o nel ‘già sentito’, e ci è riuscita creandosi uno stile molto personale, che mescola le carte in tavola con maestria assoluta.
Partendo dal thrash anni ’80, come base, i nostri inseriscono quintalate di melodia in stile N.W.O.B.H.M., in particolare nelle linee vocali e negli assoli, senza risultare, però, mai stucchevoli o esageratamente retrò. Così come i richiami a sonorità leggermente più moderne sono dosati col misurino (a parte un paio di momenti dove si è calcata un po’ la mano), e non si corre quindi il rischio di tradire lo spirito originale dell’album. Altro fattore che li differenzia dai picchiaduro è una grossa capacità di songwriting, soprattutto in fase di riffing, sempre compattissimo, ma al tempo stesso decisamente vario. Il rischio, quindi, di annoiarsi durante l’ascolto dell’album è assolutamente scongiurato, visto anche che in 52 minuti i nostri sono riusciti ad archiviare la pratica.
Per capire bene di cosa sto parlando, ascoltate “
Farewell”, per esempio, forse il brano più vario e valido del disco, e capirete che ci troviamo davanti ad una band con i controcazzi, come direbbero all’Accademia della Crusca. O anche l’opener “
Sharpen the guillotine”, ottimo biglietto da visita che mette le cose in chiaro fin da subito, partendo in quarta con un riff serratissimo dopo un arpeggio introduttivo. E fin da subito, come dicevo prima, si intuisce l’ottimo lavoro svolto da
Polako dietro il microfono, soprattutto quando arriva il ritornello, orecchiabile ma non pacchiano, particolarità che salterà fuori ripetutamente durante l’ascolto dell’album. Si torna a pestare, invece, con “
Downfall of the nation”, un rocciosissimo mid tempo, e “
One of us”, più veloce e diretta, mentre in “
Witching hour” escono fuori più che altrove le influenze classiche di cui parlavo prima.
Certo le influenze di grandi band del passato ci sono, e anche abbastanza evidenti, mentirei dicendo il contrario, e in alcuni casi si arriva pericolosamente quasi al plagio (vedi “
The hum”, copia carbone di “
Disciple of the watch” di
Chuck Billy e company), ma per fortuna non è qualcosa che può inficiare il risultato finale, visto che, come già detto, il sound che ne esce fuori alla fine è più che personale.
Interessante anche il concept dietro copertina e titolo, “
Cabaret de la guillotine”, che riguarda una locanda dove era possibile assistere alle esecuzioni, durante la rivoluzione francese, mentre si mangiava. Un’usanza abbastanza macabra, ma si sa che i francesi dell’epoca non stavano tanto bene con la testa… Tutto perfetto quindi? Non proprio… C’è qualcosa che mi ha lasciato veramente amareggiato, ed è la registrazione, non sempre all’altezza del valore dei brani, soprattutto per quanto riguarda il suono della batteria, troppo triggerato e quindi estremamente ‘finto’, ed è un peccato, perché un sound più analogico avrebbe dato ancora più corpo alla musica dei nostri. Per il resto direi che non ci sono altre ombre su questo sesto album in studio degli
Angelus Apatrida, che si confermano punta di diamante della scena spagnola, e arrivano a spintoni e gomitate ai vertici della scena thrash europea. Se le premesse sono queste, con i prossimi lavori e i prossimi show dal vivo ne sentiremo delle belle…