Scoperti dal duo
Sandy Pearlman e
Murray Krugman (gli stessi di Blue Oyster Cult e Dictators!) i
Pavlov's Dog fin dal loro fenomenale esordio (“
Pampered menial”, del 1975) hanno rappresentato un vivido esempio di straordinaria personalità artistica, intrigata dal
progressive europeo (nel panorama musicale dell’epoca, una piccola “anomalia”, per una formazione di St. Louis …) e capace di tradurre i dogmi della musica classica in una raffinata ed estetizzante formulazione
rock.
Un’aristocratica ambientazione sonora pilotata dalle impareggiabili evoluzioni canore di
David Surkamp, maestro del vibrato, delle note acute e della capacità espressiva, autore di prove fortemente caratterizzanti, in grado di provocare nell’astante una profusione di brividi emotivi.
Da quel lontano debutto a oggi, la discografia degli americani si è diluita nel tempo, lasciando i loro
fans in continua attesa di un “segnale” che ne certificasse l’agognata sopravvivenza.
“
Prodigal dreamer” arriva proprio a rassicurare ancora una volta gli estimatori del gruppo, e con la sua
cover rievocante l’iconografia ottocentesca del debutto, l’opera sembra voler rinsaldare il legame con il passato di
Surkamp, sempre più padrone assoluto del
Cane di Pavlov.
Alla prova dell’ascolto, il disco, in realtà, rivela soprattutto lo spirito
folk della
band, declinato attraverso una raccolta d’intensi frammenti sonori narrati con la consueta maestria da
David (e dalla moglie
Sara), supportato nell’impresa da musicisti preparati e ispirati (segnaliamo in particolare il violino di
Abbie Steiling).
Per chi, come il sottoscritto, ha adorato e venera tuttora “
Pampered menial” (e, in maniera lievemente minore, il successivo “
At the sound of bell”), scacciare quel formidabile ricordo per tentare di essere il più “obiettivo” possibile non è impresa semplice e ciononostante, evitando paragoni impraticabili, diciamo che sono stato piacevolmente impressionato da un albo dove la melodrammatica “
Paris” e la marziale “
Aria” lasciano il posto ai barlumi
jazz di “
Hard times” e alla ballata
Dylan-iana "
Winterblue”, per poi spingersi fino agli spigliati territori
rock-blues di “
Crying forever” (che qualcuno ricorderà nella versione dei Savoy Brown) e “
Shaking me down”.
L’ipnotico e notturno tocco
wave/reggae di “
Thrill of it all” offre un’altra sfumatura del
songbook dei nostri, che con “
Easter day” si trasferiscono nella West-Coast e con la pigra e dolente “
Hurting kind” arrivano in modo convincente fino a Nashville, lasciando alla vagamente stucchevole “
Waterlow” e alle solo discrete “
Suzanne” e “
Being in love” il poco lusinghiero ruolo di “riempitivi” della raccolta.
Il clima siderale ed evocativo di “
The winds wild early” costituisce il suggestivo sigillo di un programma forse non esattamente “strabiliante”, ma di certo piuttosto emozionante e complessivamente degno della nobile e travagliata storia dei
Pavlov's Dog, su cui siamo lieti non sia ancora stata posta la parola “fine”.