Cari amici di
Metal.it, forse abbiamo trovato il peggior album dei
Dream Theater di sempre. Mi spiace che sia toccato a me
(quando si dice la fortuna, ndr) ma il mio pensiero - anche dopo numerosi ascolti - rimane immutato.
Partiamo dalle considerazioni oggettive:
“Distance Over Time” è un lavoro essenziale (per quanto possa essere essenziale un disco marchiato
Dream Theater) costituito da tracce mediamente brevi, estremamente
guitar-oriented (
Mr. Rudess spesso non suona nemmeno - e qui trova una spiegazione anche l’uscita quasi in contemporanea di un lavoro solista), che guarda smaccatamente al passato della band (nello specifico al periodo compreso tra
“Six Degress…” e
“Octavarium”) e mai al futuro. Insomma, siamo al cospetto del perfetto antagonista di
“The Astonishing” (che, lo riconosco, ho apprezzato quantomeno per il coraggio e per l’ampio respiro del progetto).
Tutto è già stato scritto, già dalle prime note del full-length (anche da prima, se si pensa alle curiose vicende delle copertine dell’album e
del singolo).
“Untethered Angel” ci accoglie con il
solito riff insipido, seguito dal
solito attacco “cafone” supportato da un
Mike Mangini mai così invadente. Neanche l’ombra di un’idea degna del nome
Dream Theater. Cambia poco con la successiva
“Paralyzed”, con
Petrucci che cresce e cresce fino a sfociare nel nulla e con
LaBrie costretto - ancora una volta - al ruolo di comprimario e a linee vocali che non valorizzano i suoi registri migliori. “Altro riff, altro regalo” per
“Fall Into The Light”, ma ancora una volta non ci muoviamo di una virgola: tutta questa voglia di cattiveria - mutuata dal passato meno recente della band - non trova una giustificazione, così come l’intermezzo soft che sembra scritto da una band all’esordio.
Il raggio di luce si intitola
“Barstool Warrior”: sono solo echi di
Rush,
Kansas ed ELP, è vero, ma da quel poco che ho davvero capito in
“Distance Over Time” è importante sapersi accontentare. Per la prima volta si respira aria di un lavoro corale, bilanciato e ragionato, ma la fregatura è dietro l’angolo.
“Room 137” ci riporta in una caverna buia e opprimente, con
Rudess che prova - con poco successo - a farsi spazio in mezzo a un marasma di chitarre e voci filtrate. Per
“S2N” il compito ingrato di cominciare è lasciato a
John Myung. Nulla da segnalare se non l’ennesimo (e triste) copia/incolla a danno del repertorio della band, con un pizzico di
guitar-hero(t)ismo che a
Petrucci piace sempre e un breve momento di gloria di
Rudess in coda.
Attacca
“The Test That Stumped Them All”, solo che si intitola
“At Wit’s End”. Deduco che non è il brano tratto da
“6DOIT” perché la melodia è sensibilmente diversa e decisamente meno interessante. Il colpo di coda dal break pianistico in avanti non basta a risollevarne le sorti. L’immancabile ballad alla
“Another Day” (stessi suoni e stesso arrangiamento, manca solo il sax) è stata battezzata
“Out Of Reach”. L’inizio etereo di
“Pale Blue Dot” fa ben sperare, ma bastano pochi (e sgraziati) colpi di
Mangini a smorzare ogni entusiasmo. Dopo la solita sequela di esercizi ritmici da manuale del
Berklee College Of Music,
LaBrie prova a metterci una pezza, ma è troppo tardi dato che le stesse soluzioni le abbiamo già apprezzate (?) in
“Systematic Chaos”.
La traccia bonus
“Viper King” (immaginate
“Ted The Mechanic” dei
Deep Purple suonata dai
Pantera) chiude coerentemente un album sorprendente nel senso più negativo del termine.
Come ho già avuto modo di condividere con i miei amici e colleghi del portale, nessuno si aspettava un nuovo
“Images And Words”, ma nemmeno un disco fatto tanto per fare. L’asticella del progressive metal si è alzata moltissimo negli ultimi anni: sta ai
Dream Theater dimostrare di essere ancora in grado di saltarla.