C’è un filone musicale che negli ultimi tempi si è diffuso in maniera crescente nel nostro paese, fino ad imporsi come movimento di tendenza per le giovani generazioni. Ed è in particolare proprio la fascia di pubblico sotto i trent’anni ad averne decretato il successo commerciale e la conseguente importanza per l’industria discografica. Si tratta di un tipo di pop-rock nostrano che recupera parte della grande tradizione melodica della musica leggera italiana, inserendola in un contesto elettrico ed energico per svecchiarla e renderla appetibile ai ragazzi di oggi.
Un genere basato su canzoni vivaci, dinamiche, dal ritmo sostenuto e molto accattivante, ovviamente cantate rigorosamente nella nostra lingua. I temi sono concepiti con la massima linearità perché siano istantaneamente assimilati, non prevedono componenti troppo violente o depressive e tendono invece verso una gioiosità solare condita da una spolverata di graffiante aggressività, cosa che ai nostri giorni non pregiudica più l’appeal radiofonico come un tempo.
La formazione vicentina I Melt può essere collocata in tale ambito, anche se è bene precisare che non stiamo parlando di nuovi arrivati pronti a saltare sul carro dell’ultima moda. Questo trio è infatti attivo fin dai primi anni ’90 ed il presente album è già il quarto della loro discografia. Nell’arco di oltre un decennio si è lentamente guadagnato un certo rispetto all’interno della scena fino ad approdare all’etichetta La Tempesta, dietro alla quale opera il noto gruppo Tre Allegri Ragazzi Morti.
Il lavoro dei veneti conferma quelle caratteristiche di vitalità, leggerezza ed orecchiabilità di cui parlavo nell’introduzione. Allegri ma non troppo, grintosi ma non troppo, radio-oriented ma non troppo, gli I Melt frullano con misura una semplice concretezza rock, cenni di pop-punk americano, piacevoli incroci vocali ed una ventata di bizzarra fantasia. Mettono in fila una dozzina di pezzi ben confezionati, abbastanza gradevoli e puliti per scivolare via senza intoppi ma anche sufficentemente tosti e rumorosi per non sembrare roba da educande.
Dalle liriche traspare un atteggiamento a metà tra il disimpegno ed il surreale. Gli argomenti di tipo politico o religioso, i riferimenti al disagio personale o sociale, perfino i temi legati alla realtà della vita quotidiana, sono mimetizzati dentro scenari di pura immaginazione. Il mondo disegnato dal trio è infatti una sorta di rutilante circo Barnum, dove in pista c’è un vorticoso avvicendamento di elefanti e polli di cristallo, farfalle e tigri dai denti a sciabola, pipistrelli amichevoli, rondini, Magna Grecia, fiumi amari, incendi, nevicate e tutto il resto di un campionario di soggetti stravaganti che fanno parte di una dimensione fantastica e fiabescamente ripulita da elementi disturbanti.
Siamo su un piano onirico che può far pensare a velleità psichedeliche, ma qui c’è più che altro lo sforzo di dipingere un colorito Paese delle Meraviglie (..Beatlesiano?) che assume le sembianze di un fumettistico disegno adolescenziale.
Compare qualche discreta ambizione poetica (“Neve”), ma nella maggioranza dei casi sembra che I Melt abbiano badato alla facilità di memorizzare le strofe anziché inserire un vero e concreto significato.
Nell’insieme l’impressione è quella di una band dall’incedere un po’ frenato, ancora incerta se gettarsi all’inseguimento di Subsonica e gente simile oppure individuare sentieri che non prevedano l’obbligo di azzeccare almeno un hit di successo nazional-popolare. Ed è esattamente ciò che manca a questo “L’intonarumori”, dove incontriamo episodi indubbiamente carini come la saltellante “Velenemento” o la placida e cantautorale “La vita offesa”, ma non compare un vero botto-tormentone che possa spalancare le fauci dei mass-media importanti.
Se questo è il fine ultimo degli I Melt, per il momento non è ancora raggiunto ma potrebbe essere poco distante. Altrimenti c’è la possibilità di elaborare ed ampliare i rari spunti fuori dal contesto generale, non solo l’evidenza noise-sperimentale della title-track ma anche le tracce sparse in brani come “L’intensità standard del vuoto”, sferzate indie-rock che aprirebbero sviluppi imprevedibili.
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