American rock’n’roll. Qualcuno sarà già fuggito dopo aver letto questa definizione pensando a manichini laccati o insulse carnevalate per MTV dipendenti. Tutt’altra cosa. Brutto, sporco, cattivo.
Questo è il concetto di rock portato avanti dai Glasspack di Louisville, Kentucky, luogo tanto distante dai centri di potere musicale quanto la band dalle ambizioni commerciali.
Heavy rock’n’roll scarnificato, essenziale, rivestito da una violenza disperata e reale, priva di trucidi orpelli da grand-guignol ma dura come un muro che si abbatte sulla vostra faccia. Rumoroso miscuglio di hard rock, metal, stoner, acidità acre come odore di polvere da sparo, il secondo full-lenght dei Glasspack si colloca là dove gente come Chrome Locust, Hellstomper, Puny Human ed anche i più conosciuti Zen Guerrilla non sono riusciti ad arrivare, al nucleo della musica rude e cruda che potrete sentir suonare in bettole malfamate e non certo nelle algide arene mondovisione. Due chitarre come motoseghe, un saturo basso tonante, vocals stridule e stonate, ritmiche asciutte e moleste come nervi scoperti, una produzione volutamente sgangherata ed un’attitudine rissaiola da bikers incazzati, è ciò che trovate in questo album con l’aggiunta di una sorprendente freschezza compositiva che troppo spesso manca ai rockers vecchio stampo. Dove “Shut up & ride” e “Back seat whore” si nutrono di metal minimale, furente e astioso, dal taglio quasi punk, “Demolition derby” e la gigantesca “Mopar fire paint” esplodono deflagrazioni psichedeliche da trip malvagio, piene di distorsioni e anfetamina, mentre la sferragliante “Mrs. Satan” e lo strumentale “Jim Beam and good green” volteggiano dalle parti del doom superacido stile Sally, gocce di vetriolo che scavano nella carne. Certo non li ascolterete in radio e non vedrete i loro video con le donnine scosciate, potrete però trovarli fermi al margine di qualche autostrada mentre vomitano il risultato dell’ultima sbronza prima di ripartire per un altro locale. Che il tempo ce li conservi puri e dannati.
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