Prima di tutto, una piccola riflessione … quante volte abbiamo assistito a proclami contro il
rock “classico”, ormai divenuto obsoleto, vetusto, buono solo per assecondare i ricordi di apatici nostalgici, il tutto in nome di stili musicali innovativi, progressisti, rivoluzionari?
Alla fine, però, è sempre il
Grande Vecchio ad averla vinta, paziente e pronto a ritornare in auge quando la sbornia della “novità” ad ogni costo ha esaurito i suoi effetti, disponibile a essere rivitalizzato da quelle generazioni di artisti che non hanno vissuto il momento del suo massimo splendore, ma possiedono la cultura, la sensibilità e l’attitudine per carpire i “segreti” che lo rendono immortale.
Insomma, il ciclico recupero dei suoni dei
seventies è evidentemente qualcosa di più che l’esclusivo segnale di una diffusa crisi creativa, soprattutto se poi ad affidarsi a tale operazione ci sono formazioni musicali in grado di non scadere nel mero riciclaggio, intridendo di urgenza “attuale” e di temperamento le inevitabili “citazioni”.
I bergamaschi
The Stone Garden, appartengono proprio a quest’ultima categoria di musicisti, forti di una notevole coscienza storica del genere e capaci di evitare gli eccessi emulativi, svincolandosi da quel senso di “prefabbricato” che spesso affligge i numerosi propugnatori del
vintage.
Attingendo ai sacri dogmi dell’
hard-rock velato di esotica psichedelia, “
Black magic” si rivela un’eccellente traslitterazione delle peculiarità espressive d’icone quali Led Zeppelin, Grand Funk Railroad, The Cult e Danzig, attuata con la vitalità dei Rival Sons.
Uno spiccato buongusto compositivo e una notevole perizia tecnica perfezionano il profilo di un gruppo che, probabilmente anche grazie alla sua rilevante esperienza (nel
curriculum The Presence, Mr. Feedback, No Quarter, Bulldog, Mojo Filer e tante esibizioni live, tra cui la prestigiosa “apertura” per i The Dead Daisies nel 2017), nonostante la devozione, non appare mai fastidiosamente scontato o
demodé.
L’iniziale
title-track dell’opera è il modo migliore per tradurre in note tante parole … il clima pulsante, fragoroso e avvolgente del brano, ottimamente pilotato dalla sapiente voce di
Claudio “Klod” Brolis, confluisce in un
break di pura astrazione lisergica di grande suggestione.
Non da meno appaiono le successive “
Shout and roll”, un canicolare
heavy-blues Zeppelin-
esco, "
What I’ve got to give”, dalle cadenze possenti e adescanti, e "
Mother’s prayer”, sincopata e resa ancora più torrida dall’armonica dell’ospite
Morgan Carminati.
Dopo la leggermente prevedibile “
Hold on”, il programma riserva ancora importanti sussulti emozionali, a partire dalle splendide "
Better than you” e “
By my side”, invocazioni notturne e catartiche degne dei migliori The Cult, per proseguire con “
Rock damnation”, una scossa di ombrosa e polverosa elettricità, e finire per sprofondare nel gorgo caliginoso e denso "
I should believe in you”, in cui l’influenza del primo Danzig, disseminata qua e là tra i solchi dell’albo, trova una sua brillante e compiuta collocazione.
Impeto, talento e vitalità sono le armi con cui i
The Stone Garden scacciano ogni eventuale addebito di limitante approccio retrospettivo, e la loro capacità di ridestare lo spirito di una decade artistica immarcescibile merita di sicuro la piena attenzione di tutti i veri
rockofili.