I cechi
Mean Messiah giungono con il presente “
Divine Technology” al secondo full-lenght dopo “
Hell” del 2013. Immagino che in questi 7 anni di silenzio la band abbia speso molto tempo per affinare la propria proposta musicale che, tuttavia, approda ad un pallido clone degli
Strapping Young Lad di “
City” e più in generale del genio di
Devin Townsend, le cui melodie algide e spaziali vengono letteralmente saccheggiate dai
Mean Messiah.
A ciò però dovete aggiungere che, tralasciando le vocals melodiche, il cantato ruvido di
Dan Friml è chiaramente debitore di
Jens Kidman, ma non è l’unica cosa che viene rubata ai
Meshuggah, i quali, più in generale, ‘offrono’ a questo album alcuni passaggi ritmici più complessi.
Un appunto merita anche la produzione, professionale, potente e pulita, un po’ troppo forse, soprattutto per quel che riguarda la batteria, il cui suono talvolta è troppo artificiale.
La struttura delle canzoni è tutta incentrata sull’alternanza tra assalti brutali e aperture melodiche, dal sapore progressivo, in una formula tanto cara ai
Menmic.
Le melodie sono buone e forse sono l’unica cosa che, sebbene derivativa, ha una certa qualità, frutto di un gusto melodico non banale, come per esempio nella title-track.
Quando la band asciuga le proprie velleità progressive sforna pezzi brevi come “
The Beast”, veloce e brutale, al netto della batteria troppo piatta, e “
We Shout”, forse l’unico pezzo nel quale l’impatto si combina veramente bene con la melodia e un ritornello davvero catchy.
Un menzione merita anche “
Blood Of The Sirens/The Call” che, dopo un inizio violento e veloce, regala un’apertura melodica con un assolo entrambi davvero suggestivi.
In definitiva, pur essendo un disco molto derivativo, e al netto dei difetti citati, non mi sento di stroncare la proposta dei
Mean Messiah tout court. Certo, vanno rivisti. Speriamo bene per loro.
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