Nel 2006, ai tempi del loro “ritorno” sulle scene discografiche, ricordando la bella trascrizione di “
The chain” dei Fleetwood Mac che gli
Shark Island avevano incluso nello studio album d’esordio su
major “
Law of the order” (del 1989), chiesi a
Richard Black se ci fosse qualche altro brano che gli sarebbe piaciuto
coverizzare … la sua risposta fu: “
ne ho in mente una che potrebbe essere incredibile e magari la metteremo nel prossimo album … ma per il momento non voglio dire di più.”
Chissà se già si riferiva a questa “
Policy of truth” dei Depeche Mode che oggi ritroviamo nel nuovo lavoro dei californiani, ma di certo si tratta di una scelta “particolare”, apparentemente lontana dall’estrazione
hair-metal dei nostri e che può in qualche modo diventare la “chiave di lettura” di “
Bloodline”.
Siamo di fronte, infatti, a un tentativo di “rinnovamento” non sempre pienamente “a fuoco”, attuato da una
band in bilico tra la necessità di assecondare la sua “storia” e il desiderio di non apparire al contempo eccessivamente nostalgica.
Un approccio non inconsueto tra i “sopravvissuti” degli
eighties, e se nel succitato
come-back “
Gathering of the faithful” il baricentro espressivo si era spostato piuttosto felicemente verso l’
hard-blues, qui la voglia di versatilità finisce per rendere l’ascolto dell’opera parecchio discontinuo e confuso, sebbene non particolarmente molesto.
Insomma, la
cover è abbastanza piacevole e tuttavia suona vagamente sconnessa da brani del calibro di “
Make a move” e “
Fire in the house”, in cui la “fiera” appartenenza
ottantiana del gruppo riemerge in maniera prepotente e assai efficace.
Poi ci sono tracce come “
Aktion is”, una fusione riuscita a metà tra
Billy Idol e Motley Crue, “
7 tears”, che omaggia l’
Alice Cooper “psichedelico” senza la dovuta vocazione o ancora una “
On and on” che vorrebbe essere oscura e conturbante e finisce per “galleggiare” sui sensi, incapace di soggiogarli.
In mezzo, qualche scossa
anthemica piuttosto “classica” (“
Rocks on the rocks”, ”
Butterfly”), un pizzico di manierismo
glitterato (“
Crazy eights”) e un paio di episodi inoffensivi (lo
slow “
When she cries” e una “
Law of the order”, che del possente debutto ha solo il titolo) per un disco che lascia nell’astante una persistente sensazione di frammentarietà e incompiutezza.
Un vero peccato, perché con formazioni come gli
Shark Island, dotate di esperienza e di talento, ma che tra le loro peculiarità principali non hanno di certo avuto né il tempismo né la fortuna, si vorrebbe istintivamente assegnare qualcosa di più di una stentata sufficienza.
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