Ho sempre considerato una piccola “stranezza” il fatto che una nazione apparentemente precisa e disciplinata come la Svizzera potesse vantare una tradizione importante di gruppi
hard-rock, circostanza probabilmente alimentata da una sorta di “reazione” a tanto rigore e pacatezza.
I
The Order s’inseriscono con cognizione di causa in tale nobile categoria e, luoghi comuni a parte, dimostrano ancora una volta (la sesta …) che la loro miscela di
hard n’ heavy, adatta agli estimatori di Victory, Krokus, Accept, Shakra e Bonfire, ostenta una notevole qualità espressiva, magari non esattamente “innovativa”, ma certamente in grado di cagionare più di una scossa emotiva nei numerosi sostenitori del
rock duro mitteleuropeo.
Definito in sede promozionale l’
album più ponderato del gruppo elvetico, “
Supreme hypocrisy” appare un prodotto musicale solido e granitico, che non disdegna sporadiche variazioni sul tema e intride di una buona capacità melodica una collezione di canzoni piuttosto godibili, pilotate con sensibilità e grinta dalla voce granulosa e duttile di
Gianni Pontillo, che qualcuno ricorderà in forza ai poco considerati Pure Inc.
Sottovalutare anche i
The Order, solo perché non sono un nome particolarmente
cool in una scena congestionata e inflazionata, sarebbe un errore, soprattutto se vi piacciono i suoni galoppanti, impreziositi da un pizzico di senso melodrammatico (“
The show”, qualcosa tra Accept,
Alice Cooper e WASP), amate i ritmi compressi e rapaci (una
title-track dai contorni Priest-
iani) o avete un debole per le cromature metalliche di classe (“
Back to reality”).
Esibendo una certa perizia anche negli episodi più “orecchiabili” (“
Dreams are not the same”), il quartetto sa divergere dal fondato canovaccio aggiungendo all’impasto sonico bagliori “sudisti” (“
Save yourself”) o cadenze plumbee e visionarie (“
Only the good die young”), facendo poi in modo che la presenza di un paio di momenti vagamente interlocutori ("
August in Miami”, figlia di certi Krokus e la strisciante e
grungy “
Where I come from”) non infici il valore complessivo di un disco che riesce a risollevarsi a colpi di tumultuoso
groove (“
No messiah”) e malinconico sentimento (“
Sometimes”).
Dopo aver posto l’accento sulla convincente prestazione di
Bruno Spring, un chitarrista dallo stile sufficientemente fantasioso e assai incisivo, non mi rimane che consigliare “
Supreme hypocrisy” ai tanti “tradizionalisti” che sostengono la musica più bella del mondo, gestita con intelligenza, vigore e istintività dai valenti
The Order.
Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?