Quello di
Rick Wakeman è un ritorno tanto gradito quanto inaspettato, soprattutto se si pensa che il suo ultimo album di inediti con il suo
English Rock Ensemble risale al 2003
(“Out There”, ndr).
L’ex tastierista degli Yes ci propone un album rock - una precisazione doverosa considerando quanto fatto da Wakeman negli anni - interamente strumentale (altra sorpresa) e dedicato a Marte, il “pianeta rosso” a cui fa riferimento il titolo.
Se
“Ascraeus Mons” ci aiuta a entrare nel mood del full-length (organi liturgici, clavicembali, synth vintage, cori di memoria mellotronica e sezione ritmica pulsante), è con
“Tharsis Tholus” che si fa il primo deciso viaggio indietro nel tempo, con sonorità “progressivissime” che rievocano il periodo
“No Earthly Connection”.
Le successive
“Arsia Mons” (con il bel solo di
Dave Colquhoun),
“Olympus Mons” (che ha qualcosa dei Transatlantic) e
“The North Plain” (eterea e rocciosa allo stesso tempo) suonano decisamente meno datate, e sfociano nella non riuscitissima
“Pavonis Mons”, che vorrebbe essere un po’ troppe cose con le sue tastiere alla Supertramp, la cassa in quarti in stile disco e le armonie classicheggianti.
“South Pole” è ancora una volta nostalgica nei suoi riferimenti timbrici e armonici all’arcinoto
“Journey To The Centre Of The Earth”, e prelude alla lunga e dinamica
“Valles Marineris”, che strizza l’occhio a
“Mars, The Bringer Of War” di Gustav Holst (scelta non particolarmente fantasiosa, a dirla tutta) e al
“Bolero” di Maurice Ravel.
L’album termina, e alla fine di tutto penso che ci vorrei arrivare anch’io a 71 anni come
Rick Wakeman: sono l’unico?
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