Non me l’aspettavo proprio un nuovo album dei
Gazpacho così convincente. Se infatti nel precedente
“Soyuz” avevo contestato la mancanza di un “effetto sorpresa”,
“Fireworker” in questo senso non può che essere considerato un deciso passo in avanti.
Una grossa parte del merito va all’introduttiva
“Space Cowboy”, spettacolare caleidoscopio di sonorità che spaziano dai Radiohead ai No-Man, passando per i Pink Floyd più epici e cinematografici di
“Atom Heart Mother”, i Muse e il trip-hop. La successiva
“Hourglass” non è da meno, un’elegante ballad piano/Mellotron che fa il paio con
“Antique”, rarefatta alla maniera dei primi Porcupine Tree.
Se la più lineare titletrack risulta comunque interlocutoria nella sua essenzialità
(tradotto: un po’ troppa carne al fuoco per il tempo messo a disposizione dalla band, ndr), la conclusiva
“Sapien” chiude a dovere le danze con i suoi quindici e passa minuti di musica e parole che partono dall’ambient per arrivare al rock più elettrico/elettronico tanto caro ai Depeche Mode.
Una produzione inattaccabile impreziosisce ulteriormente quello che è, a mio avviso, il miglior lavoro dei norvegesi da molti anni a questa parte.
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