Gli spagnoli
Misty Grey sono attivi da una decina di anni nella scena doom rock locale. Fondati nel 2011 dal chitarrista
Juan (in precedenza nella death metal band Sacrophobia), tre anni dopo hanno pubblicato il primo album omonimo in versione vinilica autoprodotta a tiratura limitata. Lavoro uscito poi in cd nel 2016, grazie alla minuscola etichetta Topillo Records. La stessa label per la quale è uscito questo successivo "
Chapter II" (2018), che ora viene ristampato in vinile per
Interstellar Smoke Records.
Quindi, per essere chiari, non parliamo di un disco nuovo ma della ristampa di qualcosa relizzato due anni fa. Ciò non mi impedisce di spendere qualche parola per questa doom band totalmente devota al verbo dei Black Sabbath, dei Pentagram, dei Count Raven, dei Bedemon, dei St. Vitus.
Rock oscuro settantiano, che ricalca formule consolidate da decenni. Riff profondi e tenebrosi, accellerazioni hard improvvise, rallentamenti orrorifici, melodie cariche di vibrazioni occulte, assoli tirati e liturgici. In sostanza un piccolo manuale di doom-rock '70.
Ma quali elementi personali immettono gli iberici, per non risultare troppo derivativi? Onestamente, non tantissimi.
In primo luogo una female-vocalist (
Beatriz Castillo, sostituta della precedente Malicia che troviamo nel disco d'esordio) di buon livello, non stupefacente ma con discreta personalità. A me ricorda Jex Thoth, in versione più concreta e meno sciamanica e stregonesca.
In secondo una prestazione strumentale solida, con la chitarra Iommiana di
Juan in grande evidenza ed una sezione ritmica sicuramente all'altezza (
Robin al basso e
Javi alla batteria).
Infine l'idea di ispirare l'intero disco all'opera cinematografica del maestro Alfred Hitchcock. Infatti i titoli delle sette canzoni evocano altrettanti film del regista britannico, compresa "
Among the dead" che è la traduzione di "D'entre les morte", novella dello scrittore francese Boileau-Narejac che ispirò Hitchcock per "Vertigo" ("La donna che visse due volte").
In questo lavoro troviamo ottimi episodi, come la sostenuta e dinamica "
Spellbound", la mortifera e proto-sludge "
The wrong man" o la lenta e drammatica "
Frenzy", che esibisce un brillante retrogusto acido e retrò-rock. Ma si notano anche clonazioni sabbathiane molto marcate, vedi una catacombale "
Psycho vox" (con il riff preso di peso dalla band di Birmingham) o l'up-tempo di "
Strangers on a train" che ricorda innumerevoli canzoni dello stesso genere.
Non è un disco spiacevole se siete appassionati di hard doom, però neppure indispensabile. Il ricalco degli schemi e dell'atmosfera seventies, nel complesso è un pò troppo accentuata. Gli iberici possono e devono fare meglio.
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