Copertina 8,5

Info

Anno di uscita:2006
Durata:43 min.
Etichetta:Horus
Distribuzione:Audioglobe

Tracklist

  1. PROMISED LAND
  2. DRIFTERS
  3. TIME AND SPACE
  4. HARD TIMES
  5. SOMEWHERE SOMETIMES
  6. SHE
  7. SAVING GRACE
  8. HIT & RUN
  9. WIN LOSE OR DRAW
  10. A MINOR BIRD

Line up

  • Jacopo Meille: vocals
  • Gianluca Galli: guitars
  • Andrea Castelli: bass
  • Senio Firmati: drums
  • Alessandro Guasconi: keyboards
  • Federico Sagona, Emilio Sapia: piano, keyboards
  • Matt Giuliani: backing vocals

Voto medio utenti

Scacco matto in tre mosse.
Con la prima (“Roots”) hanno “approcciato” gli avversari un po’ distratti illudendoli, con un atteggiamento ancora leggermente immaturo, di non rappresentare un reale pericolo per la loro posizione privilegiata; con la seconda (“Hard times”) hanno accerchiato i pezzi migliori dei più qualificati contendenti, che hanno cominciato a “sudare freddo” vista la risolutezza e la forza dell’attacco; con la terza, questo “Hate box”, hanno infine, portato a termine la loro strepitosa strategia, chiudendo la partita con una competenza e una naturalezza da autentici veterani.
In realtà, deve essere stato proprio il fattore esperienza a fare la differenza e in questo momento in cui la scena dell’hard rock “vintage” sembra godere di una nuova “primavera”, la cultura musicale sostanziosa e variegata dei Mantra (assai corpose, sono, infatti, le collaborazioni maturate da ogni membro del gruppo) appare come un concreto elemento di distinzione, in mezzo a tanti “ragazzini”, anche pregevoli nella loro rilettura illuminata dei “classici”, ma forse talvolta sin troppo calligrafici.
Gianluca Galli, Andrea Castelli, Jacopo Meille (al quale va anche un mio personale plauso per aver conseguito la posizione di singer in seno ad una piccola leggenda dell’HM – i Tygers Of Pan Tang - oltre che per la sua attività di critico!) e finanche il più “giovane” Senio Firmati, espongono una qualità tecnico/compositiva semplicemente inattaccabile e una capacità d’assimilazione e rielaborazione personale degli archetipi “diacronici” ad un livello difficilmente riscontrabile nelle continue “next big things” di settore proposte dal mercato discografico.
Dall’altra parte, però, non stiamo neanche parlando di artisti talmente “immobili” nel loro rigore stilistico (e ce ne sono parecchi anche di eccellenti, nel ruolo d’assoluti “conservatori”) da non saper rendere le canzoni fresche ed appetibili anche per un pubblico meno legato alla “storia” e, infatti, per la verità oggi più di ieri, il quartetto nostrano si lascia sedurre da suoni in qualche maniera maggiormente “moderni”, facendo apparire oltre ai fondamentali modelli Bad Company, Led Zeppelin e Black Sabbath anche qualcosa, per esempio, dei Black Label Society, non a caso pure loro assai abili nel coniugare la tradizione con il gusto delle “nuove” generazioni.
Una sequenza di brani assai convincenti per struttura e creatività anima questo lavoro che alterna situazioni travolgenti ad altre quasi catartiche nella loro passionalità, con minime contribuzioni elettroniche e una costante componente melodica che funge da vero e prodigioso collante all’interno di un programma praticamente privo di flessioni.
I sussulti sensoriali iniziano con la straordinariamente coinvolgente “Promised land”, proseguono con le vocals filtrate e il tocco “attualizzato” di “Drifters”, diventano più raffinati nelle irresistibili suggestioni spazio-temporali di “Time and space”, tornano ad essere irruenti nel riff saturo di “Hard times” (ma il refrain è sempre piacevolmente ammiccante) e nel fraseggio serrato e incalzante di “Saving grace”, quasi come se Galli fosse andato a lezione di groove e nichilismo da Zakk Wylde o avesse assorbito qualche rifrazione della creatività esecutiva di Tom Morello e li avesse piegati al suo tipico e poliedrico guitar playing.
Un delizioso approccio di folk-rock mutante alimenta la ballata “Somewhere sometimes”, Sabbath e Zeppelin si ritrovano per una jam devastante in “She”, i superbi hard blues “Hit & run” (davvero emozionante nel suo ardore “primordiale”) e “Win lose or draw” adescano senza possibilità di salvezza e “A minor bird”, un momento di straordinario pathos poetico (il testo è mutuato da un’opera dello scrittore americano Robert Frost) ed intimista, con Jacopo che mette a dura prova le imponenti possibilità espressive della sua laringe, materializza “semplicemente” l’ennesimo gioiello di uno scrigno alquanto prezioso.
Esemplare rappresentante del cosiddetto “new old” (un ossimoro sicuramente familiare al Meille giornalista!), “Hate box” è un disco che, utilizzando un’espressione piuttosto comune in una forma liberamente inglesizzata, “breaks the ass to the sparrows” e che non solo mi costringerà a rivedere la playlist del 2006, ma altresì consentirà ai suoi autori, se c’è una giustizia, di essere citati (perlomeno) assieme ai migliori rappresentanti dell’hard classico (che non rinunciano all’evoluzione) e perché no, conquistare, come stanno facendo in questo momento alcuni di loro, le copertine di autorevoli testate musicali.
I Mantra, proseguendo nella metafora iniziale, hanno raggiunto inequivocabilmente il tavolo riservato ai campioni e sono pronti a “sfidare” chiunque abbia il coraggio di sedercisi … sotto a chi tocca!
Recensione a cura di Marco Aimasso

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