Gli austriaci Inzest si definiscono come “la risposta all’arte americana della brutalità”, tirando fuori paragoni come Hatebreed e Dying Fetus. Per essere brutali ci siamo, il deathcore della band è decisamente votato all’assalto sonoro nudo e crudo, per tutto il resto è forse il caso di stendere un velo alquanto pietoso. Per tutta la durata dei trentasei minuti delle 10 tracce del disco, la solfa non muta mai, con un singer che pur dotato di un profondo e triviale growl, è troppo monotono. Così dopo soli 5 minuti ci troviamo già a sbadigliare, sperando che il tutto finisca presto.
Tratti salienti della produzione sono una batteria forse troppo sotto tono, con la chitarra troppo in primo piano, e uno dei punti deboli del disco è il continuo fraseggio zanzaroso della stessa, il quale se per pochi minuti è anche piacevole, alla lunga stanca perché troppo centrale nel sound della band, la quale fa davvero poco per variare non solo la propria proposta, ma anche semplicemente i ritmi della propria musica, sempre uguali a sé stessi.
Tralasciando l’azzardato e inverecondo paragone con i Dying Fetus, dei quali gli Inzest non hanno non solo la classe, ma nemmeno lo spessore compositivo, anche gli Hatebreed risultano ben lontani. Più spesso si potrebbe accostare gli Inzest a qualche infima band metalcore di come ne vanno di moda adesso.
E stavolta non vale nemmeno il fatto che la band picchi duro, perché anche per picchiare ci vuole classe, e qui non se ne vede nemmeno l’ombra.
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