E’ proprio il caso di dirlo:
Happy Happy Helloween!!!
Scusate ma, al primo impatto, l’entusiasmo è tanto!
L’attesissimo album omonimo del combo metal più famoso di Amburgo infatti si rivela, a sorpresa, un lavoro di altissima qualità, come non succedeva da tanto (troppo) tempo!
Come il più classico dei fulmini a ciel sereno, dopo i primi ascolti, si rimane quasi spiazzati da tanta freschezza ed intensità, francamente difficili da prevedere per tanti fattori, e forse, per questo motivo, a conti fatti,
Helloween risulta ancora più bello, anche perché, diciamoci la verità, chi se lo immaginava un disco cosi?
Personalmente, da vecchio (in tutti i sensi) fan degli
Helloween, io no di certo!
Ma non erano bolliti da anni?
Ma la reunion con
Kiske ed
Hansen (dando per scontato che tutti voi che leggete questo sito siate a conoscenza di quello che è avvenuto nel 2016, ovvero il ritorno dei 2 membri storici delle zucche, con il conseguente “Pumpkin United Tour 2017-2018”) non era stata solo un’astuta mossa strategica, finalizzata a racimolare il bottino necessario per godersi una (meritata) pensione dorata?
Ah...maledette malelingue!
A voler essere onesti però, nelle suddette malignità, un fondo (o forse più) di verità, c’era!
Bisogna ammetterlo, lo scetticismo era parecchio ed anche abbastanza giustificato: la versione (vergognosamente tagliata) di
Skyfall (che invece si rivela uno dei pezzi migliori dell’intero disco), accompagnata da quella sgradevole sensazione di amaro in bocca lasciata dagli ultimi alquanto scialbi lavori della band, assolutamente non all’altezza della propria fama, avevano alimentato parecchi dubbi e fatto temere il peggio ed invece, improvvisamente, arriva il disco che non ti aspetti da parte di una band che, nel bene o nel male, ha scritto la storia del metal.
Helloween infatti, riesce a condensare, in poco più di un’ora, il meglio che le zucche abbiano saputo fare in quasi 38 anni di onorata carriera, nel segno della continuità con il passato, ma con un sound assolutamente moderno e con un occhio rivolto al futuro! E talvolta lo fa anche in maniera volutamente ruffiana, come avviene ad esempio per l’artwork del disco, un autentico omaggio alla “Gloria che fu”, dove spiccano il personaggio che suona la tromba (richiamo evidente a Walls Of Jericho ma, ahimè, sarà anche l'unico!), il custode con le sette chiavi (Keeper Of The Seven Keys) e un orologio (The Time Of The Oath?).
Comunque non è solo la copertina a sancire il fortissimo legame con le proprie origini. In ogni traccia infatti, si possono sentire gli echi del passato degli
Helloween di un tempo, in tutte le loro sfaccettature, dall’era dorata dei Keepers (1987-1988), al periodo della rinascita (1994-2000) con l’avvento di
Andi Deris alla voce, cosi come, qua e la, si odono, nemmeno troppo lontanamente, dei richiami agli episodi più convincenti degli ultimi 20 anni (quasi tutti riconducibili a Gambling With The Devil), vi sono poi anche riferimenti ai lavori più recenti degli Unisonic (proprio di
Kiske e
Hansen) e qualche spruzzata di Gamma Ray (quelli più ispirati, a cavallo tra Land Of The Free e Power Plant, per intenderci), del resto la penna di
Kai Hansen non poteva rimanere in silenzio!
Ma quello che sorprende maggiormente di quest’ultima fatica discografica, al di là degli inevitabili richiami del passato, è la ritrovata passione con cui sono stati concepiti tutti i pezzi, che poi inevitabilmente, analizzeremo singolarmente. Le linee melodiche sono incredibilmente belle ed emozionanti, talvolta epiche, come non avveniva da decenni, con i due singers che si integrano alla perfezione. La sezione ritmica è per lo più tiratissima, ma anche pronta a repentini cambi di tempo, mentre le 3 chitarre si alternano in riffs, assoli e fraseggi sempre di ottima fattura. Insomma,
Helloween convince in ogni momento, anche in quei pochi episodi leggermente più sperimentali, ed alla fine l’album si rivela per quello che è, ossia un lavoro sorprendentemente bello, ma soprattutto molto emozionante come, ribadisco, da tanto (troppo) tempo non riusciva alla band!
Certo, a onor del vero, manca quella spensieratezza e soprattutto quella genuinità di una volta ma, del resto, non abbiamo più a che fare con dei ragazzini scanzonati di 20-30 anni, ora siamo al cospetto di una band matura ed esperta, che ha vissuto fasi più o meno fortunate nella sua immensa storia e i cui componenti hanno ormai passato, bene o male, la cinquantina, inutile cercare di ricreare qualcosa che non esiste più, sarebbe solamente una stupida forzatura controproducente e la band opta per la decisione più saggia: le atmosfere zuccherose, fascinosamente grezze e spontanee di un tempo, lasciano il posto a un sound più corposo, con delle composizioni melodiche più profonde, sicuramente più ragionate, ma altrettanto incisive.
Se finora vi ho tediato con le mie parole deliranti (come biasimarvi?) siete liberissimi di terminare qui la lettura ma, se invece, volete farvi del male fino in fondo, eccovi un’analisi più approfondita del disco o, in altri termini, una “track-by-track”, che cercherò di rendere il più breve possibile, per evitare che una semplice recensione si tramuti in una....tesi di laurea!
OUT FOR THE GLORY
Si parte subito col botto! Signore e Signori, ecco a voi: “Eagle Fly Free” versione 2021!
Intendiamoci, non si tratta di un auto-plagio, piuttosto di un doveroso tributo, sempre nel segno della continuità, con cui la band decide di omaggiare il proprio (ormai lontano) passato. Protagonista assoluta del brano è l’ugola di
Michael Kiske, tornata a spiccare il volo, raggiungendo vette altissime, come solo le aquile osano fare, a cui fanno da contraltare, nei cori, le tipiche urla sgraziate di
Kai Hansen...bentornati figliol prodighi ed "
Happy Happy Helloween" anche a voi!
FEAR OF THE FALLEN
Indubbiamente uno dei pezzi migliori dell’album. Inizialmente sembra il tipico brano della cosiddetta “era Deris”, grazie a un riff acido che è la struttura portante dell’intera traccia, la quale però, nei suoi cinque minuti e mezzo di durata, si dimostra molto più articolata di quanto possa sembrare, rivelandosi capace, sia di mostrare i muscoli, grazie agli assoli di chitarra del trio
Hansen-
Weikath-
Gerstner e alla doppia cassa impazzita di
Dani Loble sia, al tempo stesso, di esplorare territori più intimi, grazie all’espressività dei registri vocali così diversi, ma complementari, ad opera
Kiske e
Deris.
BEST TIME
Pezzo dal sapore agrodolce, cantato per lo più da
Michael Kiske, in cui i richiami, nemmeno troppo velati, sono riconducibili ai suoi Unisonic, in particolare al brano Exceptional (molto simile). Tuttavia, in
Best Time la qualità è nettamente superiore, merito ovviamente della classe dei suoi interpreti. Il ritornello azzeccatissimo, volutamente catchy, rimane inevitabilmente impresso nelle orecchie e nella testa dell'ascoltatore anche a distanza di tempo, ma soprattutto, anche qui troviamo tantissima intensità e passione.
MASS POLLUTION
Pezzo aggressivo, fatto su misura per
Andi Deris e probabilmente da lui stesso scritto. Massiccio e tagliente come una lama affilata, molto più vicino a territori tradizionalmente heavy o rockeggianti, piuttosto che al power zuccheroso tipico dei nostri. Come se, passatemela questa, sprazzi di Master Of The Rings, The Time Of The Oath, e Gambling With The Devil, fossero tutti contemporaneamente e sapientemente miscelati in questo brano. Assolutamente convincente dall’inizio alla fine.
ANGELS
Forse una delle tracce più strane e sperimentali mai scritte dalle zucche (ad un certo punto fanno la loro comparsa una Hammond ed un pianoforte). Tutto sommato, per quanto spiazzante ai primi ascolti, il brano si fa apprezzare, grazie a delle composizioni melodiche azzeccate, con le due voci che si dividono armonicamente lo spartito, in base ai diversi momenti del pezzo.
RISE WITHOUT CHAINS
Si ritorna su territori più power e quindi più congeniali alla band che, con la maestria che la contraddistingue, tesse trame chitarristiche fitte ed intense, ritornelli epici e melodici, supportati da una sezione ritmica paragonabile ad una macchina di guerra. Non ce n’è per nessuno: gli
Helloween hanno inventato il power, in tutte le sue varianti e, quando vogliono, lo sanno suonare ancora meglio di tutti!
INDESTRUCTIBLE
Un giro di chitarra quasi dissonante introduce un altro brano roccioso, ma al tempo stesso melodico, in cui tutta la tensione accumulata nel cantato sfocia poi nel refrain “
We’re indestructible, ‘cause we’re one!” vera e propria dichiarazione di guerra!
Le zucche ci tengono a precisarlo, adesso all’interno della band regna l’armonia e nemmeno le malelingue più maligne di cui si parlava prima, potranno distruggerli!
Sarà vero o si tratta delle classiche frasi di circostanza? Il mio personale refrain interiore risponderebbe: “
Only time will tell...”
Al di là di questo, il brano è davvero bello e alterna sapientemente momenti aggressivi, ad altri decisamente più orecchiabili.
ROBOT KING
Traccia sparata a tutta velocità, dominata dalla doppia cassa di
Dani Loble e dalle chitarre di
Kai Hansen,
Michael Weikath e
Sascha Gerstner, che susseguendosi in fantastici e veloci botta e risposta, lasciano l’ascoltatore interdetto dinnanzi a cotanta magniloquenza. Il cantato qui si limita al compitino, ma va bene cosi.
CYANIDE
Brano velenoso, per l’appunto, come il cianuro, dominato da un’atmosfera oscura, che mi ha riportato ai tempi di The Dark Ride (lavoro molto discusso , ma che personalmente ho apprezzato sempre moltissimo).
Il cantato di
Deris, nel complesso, si rivela particolarmente tagliente, quasi frustrato dalla rabbia, per poi nel refrain, estremamente melodico, esplodere in tutta la sua maestosità, mentre la doppia cassa di
Loble ed il basso di
Markus Grosskopf non concedono un attimo di respiro.
DOWN IN THE DUMPS
Traccia che farà felici tutti i nostalgici di Better Than Raw (compreso il sottoscritto!). Man mano che il brano si snoda infatti, qua e la, si possono cogliere dei passaggi riconducibili a quel fantastico disco, partendo da Push a Falling Higher, passando per Handful Of Pain o Midnight Sun ma, piccolo particolare, con un
Kiske ed un
Hansen in più, scusate se è poco!
SKYFALL
Eccola la ciliegina sulla torta, posta al termine del disco ed introdotta dalla breve
Orbit.
Se il "Keeper I" poteva vantare un brano finale come Halloween, e il "Keeper II" si fregiava dell’immortale title-track,
Helloween può annoverare tra le sue fila la stupenda suite
Skyfall, brano scritto da
Kai Hansen, che finalmente sprigiona tutta la sua creatività in questi 12 minuti, a dir poco, stellari! E ripeto, non fatevi ingannare dalla versione tagliata in maniera indegna, che circola da mesi sul web, poiché ne avreste un’idea completamente distorta.
Skyfall è intensa, feroce, ma anche melodica e soprattutto fottutissimamente (concedetemi il francesismo) solenne! Inoltre finalmente, dopo la solita alternanza tra
Deris e
Kiske, fa la sua comparsa, nelle vesti di vocalist, anche
Kai Hansen, ed improvvisamente, si viene catapultati indietro nel tempo, agli anni dorati gammarayani di Somwhere Out In Space (a proposito, fate attenzione all’ultimissima frase urlata proprio da
Hansen sul finale del pezzo)...scusate ma, come diceva Giovanni del famoso trio: “
non ce la faccio, troppi ricordi!” Fortunatamente, proprio mentre sto per commuovermi, ci pensano gli assoli dei soliti
Weikath,
Gerstner e
Hansen a dare quella sferzata di energia necessaria per andare oltre.
Le strofe finali sono da brivido e calano il sipario su un’opera che segna il definitivo ritorno degli Dèi del Power, dimostrando che lo scettro è ancora saldamente nelle loro mani ed è proprio il caso di dirlo:
Happy Happy Helloween...magari meno “happy” e genuini rispetto al passato, ma altrettanto incisivi e soprattutto finalmente autori di musica di altissima qualità!