Luca Signorelli, storico direttore di Metal Hammer Italia, nonché critico musicale tra i più seri e competenti allora in circolazione, ebbe a scrivere nel suo indispensabile (e temo introvabile!) libro “L’estetica del metallaro”, che i Manowar “stanno al mondo del metal quanto l’opera omnia di Schwarzenegger sta al cinema”. All’epoca avevo trovato un po’ eccessiva quella definizione, ma oggi, dopo essere miracolosamente sopravvissuto all’ascolto integrale di “Gods of war” (ho trovato la mia medicina contro l’insonnia!) non posso che trovarmi ad aggiornarla scrivendo che i Manowar stanno all’heavy metal quanto film come “The day after tomorrow” o “La guerra dei mondi” stanno al cinema: effetti speciali di grido, scene catastrofiche e roboanti, a coprire una povertà di sostanza pressoché totale…
Già, perché se ogni musicista in erba avesse in banca la quantità di denaro posseduta da Joey De Maio e soci, probabilmente anche i loro prodotti suonerebbero come la decima fatica dei Manowar. E probabilmente sarebbero anche meglio. Il problema, che ci crediate o no, sta tutto qui: che i quattro americani paladini del “true metal” non hanno capito che non basta un’orchestra di migliaia di elementi e una produzione bombastica per trasformare una cagata in capolavoro. Come dire, se metti al mio cane la maglia di Kakà non è che questo si mette a giocare a calcio (per questa immagine orrenda siete autorizzati a spararmi!)…
C’è stato un tempo, ben prima che io arrivassi all’età della ragione, in cui i dischi dei Manowar erano grezzi e maledettamente imprecisi, avevano un suono che peggiore non si poteva, eppure ti facevano piangere ogni volta come un bambino. “Secrets of steel”, “Gates of Valhalla”, “Army of the immortals”, “Battle hymn”, “Guyana”, “Bridge of death” (e potrei continuare fino allo sfinimento) non avevano l’orchestra, non si avvalevano di cento sovraincisioni, non avevano questi suoni così potenti e maestosi, eppure, chissà perchè, erano dei capolavori. Forse perché la magia trasudava direttamente dalla chitarra di Ross the Boss, dal basso di Joey De Maio, dalle parti vocali da brividi di Eric Adams: la magia era dentro i pezzi, non fuori. Quello sì che era epic, quello sì che era true.
Che cosa sono diventati ora i Manowar, da almeno dieci anni a questa parte? Un gruppo in palese calo di ispirazione, privo di idee, che cerca di coprire questa imbarazzante situazione producendo dvd curatissimi, ricchissimi di materiale ma assolutamente inutili (mi piacerebbe sapere quanti di voi hanno a casa tutti i capitoli di “Hell on earth”… io francamente ho comprato solo il secondo!), salvo poi pubblicare un disco nuovo ogni sei anni o giù di lì. Disco che, tra cover e interludi strumentali, non contiene mai più di cinque o sei pezzi veri e propri. E come sono questi pezzi? Canzonette senz’anima, nulla di più! Andiamo, vorrete mica paragonare cose come “Sleipnir”, “Loki god of fire” o “Odin” ad uno qualsiasi dei titoli citati qui sopra? Sono gradevoli, va bene, ci sono delle strofe potenti e dei ritornelli orecchiabili, ma quante band sono capaci di farlo? E sorvolo volutamente sugli episodi già contenuti nell’ep “Sons of Odin”: ma secondo voi un gruppo che proclama “death to false metal” poi scrive “king of kings”? Francamente io mi sento preso per il culo! Se l’avessero scritta i Majesty o gli Wizard quanto li avremmo insultati? Però se la fanno i Manowar va tutto bene? Ma per favore!
Francamente non mi va giù che un gruppo che ha fatto la storia di questa musica, che ha scritto dei capolavori di proporzioni inenarrabili, se la possa cavare registrando 74 minuti di musica, dei quali più della metà sono occupati da composizioni orchestrali lunghe, ampollose, prolisse (ci sono due intro! Due, vi rendete conto?), e dai soliti e banali sproloqui su quanto sono potenti gli dei nordici (ogni tema, per quanto abusato, è affascinante se uno lo affronta in un certo modo, ma è evidente che non è il loro caso) e su quanto sono “true” coloro che combattono e muoiono in battaglia nel nome di Odino e del metal (“The warrior’s prayer” è vecchia di vent’anni e basta da sola, parola mia!).
Ovviamente ci sarà gente che ancora una volta griderà al capolavoro, che si inchinerà ai veri dei e saccheggerà gli scaffali dei negozi. Ognuno ha le sue passioni, e chi può capirlo meglio di me, che ho sbavato dietro all’ultimo, ultrastroncato disco dei Maiden? Perciò, non me ne vogliano i fan della band, ma permettetemi di rimanere fedele al mio giudizio: i veri Manowar sono finiti con “Sign of the hammer”, e dopo lo scempio di “Fighting the world” (che però diventa quasi accettabile se paragonato a questo!) non hanno fatto altro che riproporre all’infinito la formula di “Kings of metal”: d’accordo, quello era un bel disco, ma alla quarta volta che lo risuoni uguale…
Cari Joey, Eric, Scott e Carl: smettiamola di chiamare genialità la vostra assoluta incapacità di riempire un cd con canzoni vere. Non parlatemi più di quanto siete bravi, buoni e belli, e di quanto amate i vostri fan. Dopo averli fatto aspettare cinque anni e averli fatto trovare tra le mani un prodotto del genere, l’unica cosa che potete fare per loro è un bel concerto d’addio…