Avevo conosciuto gli statunitensi
Undeath qualche anno addietro ai tempi della pubblicazione del loro demo
“Sentient autolysis” uscito per
Caligari Records, lavoro che già mostrava la propensione della band nel seguire le orme dello storico death metal statunitense.
Evidentemente era destino che le nostre strade si incrociassero ancora. Nel frattempo la band si è “fatta grande” ed sono giunti all’uscita del loro secondo lavoro sulla lunga distanza – sempre per
Prosthetic Records – con l’eloquente titolo
“It’s time… to rise from the grave”.
In questi tre anni la band dimostra di aver affilato le lame della personale collezione di armi bianche, compiendo quel “passo in avanti” che si chiede quando si passa dalla fase demo a quella, più impegnativa, della composizione di un album vero e proprio. Certo il death metal dei Nostri è sì sempre debitore di quello codificato negli anni da
Cannibal Corpse (quelli più recenti),
Morbid Angel e
Immolation ma, allo stesso tempo, risulta animato da un positivo dinamismo ed è decisamente gradevole all’ascolto.
Dei trentasei minuti che costituiscono
“It’s time…to rise from the grave” non si butta via niente. Durante gli ascolti emerge la propensione degli Undeath ad articolare la propria proposta mediante l’utilizzo di break e stop&go anziché puntare sul martellamento crudo e puro. Ciò permette di apprezzare sia la fondamentale base ritmica che costituisce l’intelaiatura dei dieci brani in questione, sia gli assoli che ne costituiscono l’acme.
L’ingresso in pianta stabile di un bassista (
Tommy Wall) e di un secondo chitarrista (
Jared Welch) non ha solo garantito una maggiore stabilità alla band, ma ha arricchito il suono di
"It’s time…to rise from the grave” dotandolo di un maggior spessore.
Brani top? Durante l’ascolto sono emersi in particolare
“Rise from the grave”, “Human chandelier” e
“Head splatterd in seven ways”, credo che riescano a rendere, a chi non li conosce, una buona fotografia degli attuali
Undeath.
Band da continuare a seguire.
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