C'è stato un periodo, nemmeno troppo lontano, in cui le tastiere hanno assunto di forza un ruolo fondamentale in moltissimi gruppi rock e hard rock. Senza andare troppo a ritroso nel tempo, quando "un certo" Keith Emerson rovesciò il tavolo da gioco, elevando le keyboards a strumento portante di ELP o 3, occorre ricordare ai più smemorati l'importanza dello strumento nella stragrande maggioranza delle band AOR/hair metal negli anni 80, determinandone spesso e volentieri le fortune. Un nome, probabilmente IL nome che "c'è sempre stato", risponde ovviamente a quello di Mark Mangold: sia con le sue band (American Tears, Touch e Drive She Said), sia nelle vesti di hitmaker di personaggi saliti alla ribalta delle cronache (Cher, Benny Mardones, Paul Rodgers ecc.).
Avete presente il fondamentale riff di tastiere di "Fools Game" di Michael Bolton, forse l'anthem per eccellenza di tutto il genere? Ebbene si, porta la sua firma. Dopo aver stupito il mondo intero con l'eccelsa freschezza di "Tomorrow Never Comes" dei redivivi Touch (nonostante ben 40 anni di inattività), ed aver resuscitato persino gli American Tears, lo stakanovista Mangold elabora un nuovo progetto, nato dalla sua indole visionaria di "stregone" dei tasti d'avorio. Un disco totalmente incentrato sulle keyboards, e concepito con l'apporto del cantante Jake E. (ex Amaranthe e Cyhra).
Il connubio vecchio leone/nuovo "sangue" si rivela una scommessa vincente, grazie ad una proposta che non profuma solo di old prog/pomp, ma guarda dritta negli occhi al presente senza dimenticare la classicità. Come sostiene senza timore di smentite Mark, "ci sono moltissimi suoni di synth che possono sostituire le chitarre", e questo omonimo "Keys" ne è la palese dimostrazione. Ciò che emerge da un attento ascolto dalle tracce che compongono il lavoro, è sicuramente uno spirito di libertà compositiva che, probabilmente, ha rappresentato fin dall'inizio il mood con cui Mangold ha affrontato questa ennesima e vincente sfida.
Pomp? Prog? Hard Rock? AOR? Sareste stupiti se vi dicessi che, tra le note dell'album, potete trovare tutto ciò che ho appena menzionato? La settorialità, nonostante venga definita "comfort zone" da qualche stitico di corpo e di mente, non ha mai portato lontano. A meno che non si consideri "arte" coltivare il proprio striminzito orticello. Chi vive nel presente, ma ha le radici ben piantate in una Storia (esse maiuscola) che non può essere contestata se non dal paraocchi dell'ignoranza, avrà di che godere dall'incredibile moto perpetuo delle tastiere di Mark. Così come potrà stupirsi per la varietà vocale di un Jake E. per molti versi sorprendente. L'album deve essere gustato nella sua interezza, tra gli stop and go di "Cries And Whispers", gli spettacolari istrionismi Emerson/Giuffria contenuti su "When Shadows Fall", oppure gli incontestabili AOR vibes della sognante "Goodtimes". Se ricordate il supergruppo The Sign, composto oltre che da Mangold, anche da Randy Jackson (Zebra e China Rain), Billy Greer (Streets, Seventh Key), Terry Brock (Strangeways), probabilmente avrete una parziale idea di cosa attendervi. Dico parziale perchè, come sottolineato, "Keys" tiene la barra dritta su un suono vitale ed attuale, che paga il giusto dazio al classico rock pomposo e lussureggiante, ma lo rielabora in chiave "2.0."
Da rimarcare anche la partecipazione di Charlie Calv, ex tastierista degli Shotgun Symphony, attualmente in forza ai rinati e magnifici Angel, nonché il "supporto morale" di Don Airey.
Se con "Tomorrow Never Comes" dei Touch (peraltro finito nella top ten redazionale 2021 di metal.it), Mark aveva ribadito il suo primato come AOR-God, con i Keys dimostra di saper interpretare il genere in maniera futuribile. D'altra parte, solo i grandi artisti sanno plasmare la realtà a propria immagine e somiglianza.