Una “dolce condanna”, questo ha rappresentato per gli
Extreme il successo planetario di “
More than words”. Uno scotto che evidentemente ha lasciato segni importanti nella carriera di un gruppo che nell’immaginario collettivo era quasi “costretto” a replicare quella piccola delizia acustica.
Come ben sanno i loro estimatori “leggermente” meno superficiali, nella parabola artistica (tra alti e bassi) degli americani c’è anche molto altro, prima fra tutti la voglia di spaziare nei suoni partendo dalla tradizione e tentando elaborazioni mutevoli e variegate.
E da questi due concetti prende avvio la mia valutazione di “
Six”, il disco del “ritorno” a quindici anni da “
Saudades de rock”, che a sua volta avrebbe dovuto garantire il rilancio in grande stile dei nostri.
La ricerca spasmodica di una nuova ballata “ad effetto” e la volontà di dimostrare che a trent’anni dalla sua epoca aurea la
band non ha perso la sua creatività sembrano, infatti, un po’ le due anime di un albo complessivamente parecchio godibile, a cui manca forse un pizzico di superiore “coerenza” e il liberarsi definitivamente dal succitato “fardello”, per arrivare a soddisfare pienamente le elevatissime aspettative dei loro fedeli sostenitori e dell’intera comunità
rockofila.
Insomma, per quanto molto gradevoli, ben quattro piuttosto evidenti tentativi di sfornare la “nuova” “
More than words” sembrano davvero un pochino troppi, mentre dall’altra parte affiora l’impressione che la mescolanza degli stili sia stata meno efficace e compatta che in altre occasioni.
Diciamo anche che musicisti di questo calibro possono permettersi quasi “tutto” ed è sufficiente affidarsi al
groove trainante di “
Rise” e ai sussulti striscianti ed adescanti di “
#Rebel” e “
Save me” (appena meno convincente, invero), splendidamente pilotati dalla voce di
Gary Cherone e dalla chitarra di
Nuno Bettencourt per rendersi conto di come gli
Extreme del 2023 possiedano la vivacità e la forza espressiva necessarie per emergere dalla massa.
“
Banshee” ricorda al “mondo” che una delle influenze primarie dei Bostoniani sono stati i Van Halen, circostanza invece più difficile da individuare quando a irrompere nel programma sono il clima marziale e “industriale” di "
The mask”, la fusione tra Rage Against The Machine e NIN denominata "
Thicker than blood” o ancora le ipnotiche digressioni elettroniche di "
X out”, tutta “roba” che rimanda in qualche modo all’esperienza di
Cherone con i Tribe Of Judah.
Arrivati allo “scottante” capitolo dei frangenti elettroacustici, il
mid-tempo “
Other side of the rainbow” è certamente il più riuscito, seguito a ruota dagli
slow “
Small town beautiful” e "
Hurricane” (alimentata da
vocals vagamente Byrds-
iane, una “vecchia” passione del gruppo), per finire con "
Here's to the losers”, con tanto di porzione corale ad accentuare l’effetto
singalong.
In quota spensieratezza e disimpegno estivo arriva, infine, il
pop caraibico “
Beautiful girls”, per certi versi leggibile come una sorta di sfida (ancora?) al “pensionato”
David Lee Roth, tutto sommato dilettevole ma priva del carisma dell’indimenticato guascone di
Bloomington.
In conclusione, “
Six” piace, oltre che per la qualità esecutiva, per la libertà ispirativa, mitigata da una focalizzazione imperfetta e da uno
zinzino di eccessiva ricerca “retrospettiva” della
hit … nell'insieme, un proficuo (secondo) ritorno sulle scene, comunque.