“IL RE E’ TORNATO...VIVA IL RE!”
Il “Re” che, nel caso specifico, risponde al nome di Mr.
Mike Portnoy, torna a sedersi sul trono della SUA band, se la riprende per DIRITTO DI NASCITA, la rivolta come un calzino e, insieme con l’amico fraterno
John Petrucci alla chitarra ed il ritrovato
James Labrie dietro al microfono, ci regala un album inaspettatamente bello, emozionante ed ispirato; insomma un disco che, dopo tanti anni di vacche magre, è finalmente DEGNO di portare con fierezza il glorioso monicker
DREAM THEATER!
Ragazzi, quanto mi sarebbe piaciuto cominciare cosi questa recensione, e invece…temo proprio che siamo alle solite!
Per carità,
Parasomnia non è brutto, a tratti è gradevole (mi sembra già di sentirvi: “
non brutto, a tratti gradevole?!.. Oh ma, parliamo pur sempre dei Dream Theater!"), sostanzialmente in linea, tra alti e bassi, con quanto fatto dai Nostri nell’ultimo ventennio; un full-length povero di veri e propri picchi compositivi, con una creatività che fatica tremendamente ad emergere, anche se, ineccepibile tecnicamente.
Uscito per
InsideOut Music,
Parasomnia rappresenta la sedicesima fatica discografica per il Teatro del Sogno e, come tutti sanno, sancisce il tanto atteso ritorno del “figliol prodigo”
Mike Portnoy dietro le pelli, dopo ben 15 anni di assenza.
Al riguardo, subito una doverosa precisazione: Mangini non ha assolutamente demeritato durante la sua lunga militanza nella band. “Mike II” ha sempre svolto più che degnamente il suo compito ma, il marchio di fabbrica del sound dreamtheateriano, si è sempre identificato con il drumming, del tutto personale, di
Portnoy,dotato di maggior carisma e sentimento, tanto che, la sua assenza, soprattutto dal vivo, si è avvertita pesantemente in questo lasso temporale.
Tuttavia, come purtroppo temevo, il ritorno del “Re”, celebrato in pompa magna per parecchi mesi e sbandierato da molti come la risoluzione di tutti i problemi compositivi dei
Dream Theater degli ultimi 20-25 anni (dimenticandosi, di colpo, che nei controversi
Systematic Chaos o
Black Clouds, alla batteria c’era proprio “King Mike”), a conti fatti, non si è rivelato cosi risolutivo come ci si auspicava.
Insomma, parliamoci chiaramente: il tocco di
Portnoy fa bene al cuore, soprattutto per i “boomers” più nostalgici della prima ora (come il sottoscritto), ma non era il batterista la priorità!
Parasomnia, come il suo predecessore
A View From The Top Of The World, mette in luce, una volta ancora, i pregi, ma anche i consueti limiti in fase di song-writing, di una band, tecnicamente ancora perfetta (
oh ma, parliamo pur sempre dei Dream Theater!) e che, a livello strumentale, vorrebbe anche provare ad osare ma, alla lunga, si ritrova sempre prigioniera dei soliti schemi e dei medesimi clichè compositivi.
Lecito chiedersi, per quale motivo questo avvenga.
Non ho certo la presunzione di dare una risposta ad una domanda cosi complessa, o di avere la verità in tasca; posso solo dare la mia visione, al riguardo.
Innanzitutto, ovviamente, la voce di
James Labrie, elemento troppo catalizzante per non condizionare l’intero quadro stilistico.
E’ fuor di dubbio che il caratteristico timbro del singer canadese ormai, non riesce più, né a graffiare, né a trasmettere il trasporto emotivo del passato, finendo per appiattire inevitabilmente le trame melodiche e limitando, di parecchio, il ventaglio delle possibili soluzioni musicali da adottare.
Tale problematica è palese (in maniera più o meno evidente) in
A Broken Man,
Dead Asleep o
Midnight Messiah (che, nel cantato iniziale, una brutta versione di "As I Am"), brani che non convincono, fiacchi nelle linee vocali (e perfino nei refrains), risollevati, nei momenti più difficili, dalla classe indiscussa dei soliti
John Petrucci e
Jordan Rudess autori, come sempre, di una prova maiuscola.
Inoltre, anche in
Parasomnia, i
Dream Theater cadono nel solito maledetto errore dell’auto-celebrazione, allungando inopportunamente tracce che avrebbero certamente reso di più, se non fossero state cosi tremendamente prolisse. Insomma, spesso si ha la sensazione che oggi la band debba obbligatoriamente concepire delle composizioni forzatamente lunghe, ma senza una logica; in quest’ottica può essere intrepretata la “sindrome del copia-incolla” da cui i Nostri sono affetti ormai da tempo.
Comunque,
Parasomnia riserva anche episodi decisamente validi (
oh ma, parliamo pur sempre dei Dream Theater!), come l’affascinante intro strumentale (ripeto, STRUMENTALE: ho detto tutto!)
In The Arms Of Morpheus, l’elegante
Bend The Clock o l’avvincente suite finale (quasi 20 minuti di durata)
The Shadow Man Incident.
Se poi, si vuole allargare il discorso, anche la stessa
Night Terror, o la suddetta
A Broken Man, presentano spunti degni di nota, a livello STRUMENTALE (scusate se mi ripeto, ma il contrasto con il cantato talvolta, emerge in maniera netta); ci sono degli ottimi fraseggi e dei passaggi interessanti (non fini a se stessi), tanto che, si ha la tangibile sensazione che si voglia finalmente esplorare nuovi territori eppure poi, per un motivo o per un altro, tutto svanisce in una bolla di sapone e le idee vengono soffocate sul nascere dal solito prevedibile canovaccio.
Dunque, riassumendo, se avete apprezzato i
Dream Theater degli ultimi 20 anni, anche
Parasomnia, che comunque è un disco oggettivamente più che sufficiente, vi farà felici.
D'altra parte però, coloro (come il sottoscritto) che si aspettano di più dal combo americano, abbracciando la teoria del “
oh, parliamo pur sempre dei Dream Theater!” avranno, anche stavolta, pienamente ragione! Con un gruppo cosi, non ci si può accontentare del classico compitino! Se non altro, per una questione di rispetto, nei confronti delle emozioni che questa band ha saputo regalare, in un'epoca sempre più remota! Tuttavia, è ormai giunto il momento di guardare in faccia la realtà: inutile pretendere troppo e rimpiangere un passato che non tornerà più; oggi i
Dream Theater sono questi…prendere o lasciare!