Copertina 7,5

Info

Anno di uscita:2004
Durata:50 min.
Etichetta:Frontiers
Distribuzione:Frontiers

Tracklist

  1. BELIEVE IN ME
  2. SOUL DIVINE
  3. DROWNING
  4. IF THIS IS THE END
  5. LOST IN THE TRANSLATION
  6. DOIN’ TIME
  7. HIGH TIME
  8. BEGINNING 2 END
  9. ON MY OWN
  10. FIND OUR WAY
  11. SACRED EYES
  12. DULCE LADY (BONUS TRACK)
  13. IF THIS IS THE END (BONUS VIDEO)

Line up

  • Jeff Scott Soto: vocals, bass, keyboards
  • Howie Simon: guitars
  • Gary Schutt: guitars
  • Glen Sobel: drums
  • Neal Schon: guitars

Voto medio utenti

Nessuno può accusare Jeff Scott Soto di essere un artista poco prolifico. Dall’età di diciotto anni quando fu convocato alla corte dell’axe-man svedese Yngwie J. Malmsteen è comparso in veste di lead vocalist in oltre 40 album (Talisman, Takara, Eyes, Axel Rudi Pell ecc.), come corista e ospite in un numero infinito di release, ha partecipato a colonne sonore di film (Rock Star e La Regina Dei Dannati) e di cartoni animati (Biker Mice From Mars). “Lost In The Translation” è il suo terzo album da solista, nato poco meno di un mese dopo la fine del tour promozionale del precedente “Prism” l’anno scorso. Dopo il funk di “Love Parade” e l’AOR di “Prism” Soto ha deciso ancora una volta di mettere alla prova se stesso e i suoi fedeli fans componendo un album di sano hard rock. La line-up è per ¾ la stessa degli album precedenti, JSS alla voce, basso e tastiera, Gary Schutt e Howie Simon alle chitarre e la new entry Glen Sobel, subentrato come nuovo batterista al dimissionario Alex Papa. Ospite d’eccezione l’ex Journey Neal Schon, co-autore e chitarrista in “Believe In Me” e compagno d’avventura di Soto, Marco Mendoza e Dean Castronovo nel super gruppo Soul Sirkus, freso di debut album. Proprio a “Believe In Me” è affidato il compito di fare da apripista e da subito il suo ritmo incalzante e le chitarre in stile Van Halen travolgono l’ascoltatore. In questo brano, come in molti atri, la voce di Soto ricorda per certi versi quella di Steve Perry dei Journey. Che Perry sia da sempre una delle muse ispiratrici di JSS è cosa ormai nota: la versione di “Send Her My Love” che uscì su una release non ufficiale intitolata “Covers Collection” è una delle interpretazioni migliori che abbia mai fatto. Ottime le chitarre di Simon e Schutt in “Soul Divine”, brano dal tappeto hard rock mitigato dai cori iper-strutturati. Voce e chitarre si induriscono ulteriormente nell’up-tempo “Drowning” che non si lascia mai corrompere da alcun calo di tensione. Un momento di respiro con la prima ballad di LITT, “If This Is The End”, canzone dolce ma sobria che si concede cori epici dalla seconda metà in poi. Alcuni passaggi ricordano “Possession” dall’omonimo album dei Bad English del 1989. La title-track preme sull’acceleratore, peccato per il testo un po’ rozzo… Il drumming di Sobel guadagna più spazio nell’intro, e per tutta la durata, dell’up-tempo “Doin’ Time”, seguita da una altrettanto veloce “High Time” in cui i cori del ritornello hanno maggiore rilievo rispetto alla precedente. Seconda, e ultima, ballad di LITT è “Beginning 2 End” in cui Soto, supportato dalle monumentali chitarre (debitrici ancora una volta ai grandi Journey) del duo Simon-Schutt, da una grande prova vocale. “On My Own” e “Find My Way” riportano l’album su binari hard rock mentre la conclusiva “Sacred Eyes” sarà un brano perfetto per i set acustici che Soto e la sua band amano tanto inserire nella scaletta dei loro show dal vivo… Come bonus LITT contiene il brano “Dulce Lady” e la versione video di “If This Is The End”.
La produzione è opera dello stesso JSS che fa un buon lavoro rendendo onore a voce e chitarre ma penalizza la sessione ritmica vittima di un sound un po’ ovattato. Sicuramente Sobel avrà modo di far ampio sfoggio delle sue potenzialità in sede live. Abile la mossa di spezzare la corsa dei brani più marcatamente hard rock con le ballad e il brano acustico, cosa che rassicurerà i fans degli ultimi due lavori di Soto, che rimarranno senz’altro perplessi di fronte al nuovo lavoro del singer americano. Certo, gli acuti di “Don’t Let It End” sono ormai lontani ma la maestria vocale, la maturità e la verve compositiva di JSS sono innegabili; speriamo solo di avere ancora la possibilità di vederlo dal vivo in qualche locale nazionale, come un anno fa.
Recensione a cura di Elena Mascaro

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