Meglio non spendere nemmeno una parola sul legame ultradecennale che mi lega alla band di Steve Harris e compagni: non voglio essere tacciato di favoritismo e devo essere il più obiettivo possible.
“A matter of life and death” è sicuramente il migliore dei dischi della nuova era Dickinson e si colloca dunque immediatamente sotto a “Seventh son of a seventh son” per quanto riguarda il suo valore assoluto, almeno per quanto riguarda il sottoscritto.
Tenere il buon Stevie lontano dal pentagramma pare stia sortendo i suoi effetti positivi: ancora una volta il bassista firma in proprio solamente un brano (“For the greater good of God”) e guarda caso ancora una volta il livello qualitativo di questa nuova release è decisamente alto, con una manciata di pezzi quasi degni di figurare a fianco dei primi, immortali cinque album (cosa del resto già accaduta sul precedente “Dance of death”).
Musicalmente non siamo molto lontani da quanto i Maiden ci hanno fatto vedere in tempi recenti: brani dilatati al massimo, grande respiro epico, attenzione posta soprattutto sulle parti strumentali. Semplicemente, questa formula raggiunge ora il suo punto culminante, e soprattutto perché il lavoro in sede di songwriting è stato decisamente migliore. Le canzoni seguono uno sviluppo ben preciso, attraversano tutta una serie di momenti diversi, e non si limitano più a ripetere all’infinito la stessa melodia chitarristica o lo stesso ritornello. In pratica siamo di fronte alla ripresa del modello di “Paschendale”, ma se possibile ancora più epico e solenne che mai. Ne consegue che anche le canzoni più lunghe riescono nell’impresa di non annoiare (oddio, qualche momento pesante c’è, ma non c’è paragone coi lavori precedenti!). Dickinson è più che mai ispirato e si cimenta con linee vocali insolitamente alte, anche se, a onor del vero se la cava bene (vedremo dal vivo!). Tutta la band è comunque in forma smagliante, e ancora una volta questo è un disco che suona fresco e immediato, nonostante la sua considerevole durata.
Ovviamente, ogni qual volta un nome del genere fa uscire un nuovo prodotto, la folla si spacca in due: ci sarà sempre gente che considererà questo album spazzatura, esattamente come tutto ciò che è uscito da “Fear of the dark” in poi. Rispetto pienamente il parere di queste persone, anche di coloro che si rifiuteranno addirittura di metterlo nello stereo (ciao Riccardo!), però lasciatemi dire una cosa: siamo poi così sicuri che il tanto decantato “Fear of the dark” fosse un buon album? Personalmente non lo credo affatto. Gli Iron Maiden dei primi anni novanta erano un gruppo finito, sotto ogni punto di vista (anche dal vivo, e lì loro sono calati molto raramente!), questi sono invece una band che sta dimostrando coraggio e voglia di dire qualcosa di nuovo, anche dopo trent’anni di attività. Che ci riescano o meno rientra nella sfera dei pareri personali, ma l’attitudine no, quella è sotto gli occhi di tutti...