Che in Scandinavia vada sempre forte il rock’n’roll suonato alla vecchia maniera, è un fatto noto e verificato. Mi riferisco all’interpretazione primitiva, grezza, viscerale e direttamente ispirata alle grandi formazioni del passato, che da quelle parti ha decretato il successo di parecchi esponenti contemporanei. Inevitabile quindi la proliferazione di gruppi accodati a quella che è diventata una vera e propria moda, con tutto ciò che comporta in senso positivo e negativo.
Un fresco nome in questo campo è quello degli svedesi Dollhouse, il cui debutto era passato quasi inosservato al di fuori dei patrii confini. Adesso il gruppo replica con il supporto di una migliore distribuzione, proponendo un disco che ha l’aspetto di un reperto d’antiquariato musicale.
Non esagero affatto quando dico che c’è davvero il rischio di scambiarlo per un vero inedito del periodo ’60-’70, magari recuperato da nastri polverosi. Si è perfino provveduto a manipolare i suoni dell’album per simulare meglio il peso degli anni, ed i ragazzi svedesi suonano esattamente come giovani cloni di Blue Cheer o Mc5.
Però quando si calca così tanto la mano sull’effetto vintage, aumenta il rischio di trasformare una rilettura del passato nella sua parodia. A beneficio dei Dollhouse possiamo dire che sfoggiano una naturale scioltezza che li rende credibili, producono canzoni secche e concise ma non elementari, ed offrono un tiro generalmente molto vivace, nervoso e vibrante. Inoltre il gruppo è perfetto nel ricostruire il groove d’epoca, con annesse le trascinanti “good vibrations” d’antica memoria.
Certo il rock greve e fumoso dei Dollhouse è solamente una copia dell’originale, privo di significativi contributi personali. Tutto ruota sui soliti elementi: chitarre spesse e ruggenti, ritmo epidermico, atmosfere malsane, fondamenti blues ed elevata penetrazione melodica.
Un vero patito del rock difficilmente resterà impassibile di fronte all’energia scatenante delle varie “The rock & soul fever”, “Living tomorrow”, “Hard to change” o la fulminante “Dead man’s hand”, una sventagliata di colpi al bersaglio grosso che riaccende il nostro recondito istinto tribale.
Gli svedesi sono scolari diligenti, hanno studiato bene la lezione. L’insieme dei riffs e degli assoli tracimanti sono “made in Detroit” quasi quanto gli originali, la voce di Chris Winter tende un po’alla monotonia ma si adatta perfettamente alla simulazione retrò, mentre il saltuario utilizzo dei cori è artigianale come quello dei pionieri rock. Ma la cosa fondamentale è la presenza di quei ritornelli insidiosi che ti ritrovi a canticchiare in maniera automatica, roba che trent’anni fa avrebbe lanciato i Dollhouse nelle classifiche di mezzo mondo.
Per esibire la propria tecnica il gruppo gioca anche la carta del blues torrido e melmoso, vedi “With my heart and soul” e “The worried blues”, caratteristico per la sua densità avvolgente ed il solismo sciolto da ogni vincolo che volteggia all’ombra del grande Jimi Hendrix.
La conclusione non può che essere la stessa di altri lavori dello stesso tipo. Ragionando da freddo analista musicale questo disco è nient’altro che un discreto riciclo di idee superate, magari innovative alla nascita ma insignificanti ai nostri giorni. Ascoltando parti del corpo diverse dal cervello, “Royal rendez-vous” è più genuino di tanti prefabbricati moderni ed il derivativo feeling “heart & soul” dei Dollhouse ritrova l’effetto torcibudella cancellato dall’era tecnologica.
Disco pensato per i nostalgici, ma anche consigliato a chi vuol capire perché i vecchi insistono che il rock di una volta era un’altra cosa.
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