“Alex, perché non ti piace Somewhere In Time?”
“Boh”Questa è la discussione avvenuta tra me e Steve Harris al telefono nel 1986…
Eppure, mi disse lui, ci puoi sentire l’ennesima evoluzione del nostro sound, una nuova linfa compositiva, accompagnata comunque da tutti i tratti distintivi dei Maiden.
In effetti lo zio Steve aveva ragione, ma che ci devo fare se proprio non riesco a metterlo sullo stesso piano degli altri?
Con Somewhere In Time le durate dei brani iniziano a dilatarsi e prende piede quel lato progressive (o chiamatelo come vi pare) dei Maiden, qui ancora pregevole ma ovviamente ostile a quell’immediatezza che finora aveva caratterizzato tutti i capolavori della Vergine di Ferro. L’unica eccezione è rappresentata dalla splendida
Wasted Years, ma fin dall’inizio si capisce quanto questo album sia diverso dai suoi predecessori.
Un disco che necessita di molti ascolti per essere assimilato e capito fino in fondo. Per tanti questo è un album da incorniciare, per me un’esagerazione e una forzatura di aspetti stilistici che avrebbero potuto comunque trovare spazio in maniera più soft, a partire dalle linee vocali fortemente esasperate.
Non posso negare, comunque, che anche in questo caso i Maiden abbiano fatto scuola, quindi il voto è sicuramente alto per merito e non certo per altri motivi. Dopo Powerslave, però, il passo indietro è netto e deciso.