Questo intrepido cd ha attraversato l’Italia sfidando ogni intemperia prima di giungere nel mio lettore. Da non so dove fino a Roma, da Roma a Milano, da Milano a Torino, nel breve lasso di tempo che io impiegherei a circumnavigare il globo (a nuoto…). Il nostro glorioso ente postale ha superato ogni record ed ogni limite di decenza, ma alla fine l’essenziale è che sia arrivato a destinazione. Peccato sia arrivato rotto. Roba da comiche. Infatti a volte ho il sospetto di vivere in un libro di Wodehouse (fine umorista inglese…). Tra un saltello ed un solco sono comunque riuscito ad ascoltarlo quasi per intero.
L’ho presa larga perché non c’è nulla di nuovo da dire sugli Sheavy, nulla che non sia già stato detto. La loro essenza di formazione può essere riassunta sinteticamente: sono i migliori cloni dei Black Sabbath.
Personalmente li seguo fin dai tempi di “The electric sleep” (1998) e mi sono sempre piaciuti, mi hanno sempre divertito. Ma non c’è alcun dubbio che il loro livello di originalità sia esattamente zero.
Steve Hennessey possiede una voce identica a quella del giovane Ozzy e se possibile cerca di accentuare ancora di più la stupefacente somiglianza. Le loro canzoni sembrano estratte di peso da “Paranoid” o “Sabbath bloody sabbath”. In quest’occasione pare abbiano preso come riferimento il discusso “Never say die”, più hard rock e meno oscurità, più forza ed energia e meno incantamento ossianico, ed il fatto che il quartetto canadese sia volato fino in Belgio allo studio LaChapelle per mettersi agli ordini di Mike Butcher, il produttore di “Sabotage”, mette fine ad ogni discussione.
Gli Sheavy suonano scientemente ciò che avrebbero suonato i vecchi Sabs se fossero ancora in circolazione. Lo sanno e ne vanno fieri. Quindi se come me avete una quasi venerazione per i primi albums dei Sabbath, e se la vista del madman che oggi gioca a fare la “Casa Vianello Metal” vi provoca un’inesplicabile senso di tristezza ed una fastidiosa orticaria, sparatevi a tutto volume pezzi come “Firebird 350”,”Next exit to vertigo” o “Synchronized” e la vita tornerà a sorridervi.
E poi che goduria poter finalmente rispondere con granitica sicurezza alla domanda più difficile e complessa di quest’era musicale, il vero incubo di ogni appassionato di heavy rock: “ma che genere suona questo gruppo?”. Genere Black Sabbath !! E nessuno potrà accusarvi di essere incompetenti, sprovveduti, sordi, bolliti, i generi non esistono, sono solo fantasie giornalistiche e bla bla bla. Soddisfazioni che contano.
Primo finale: gli Sheavy mi piacciono, mi sono simpatici anche per la loro attiva partecipazione alla scena underground dove si sono fatti un sacco di amici, primo fra tutti Lee Dorrian. Le canzoni di questo album sono ottime, grintose, energiche, piene dei riffoni e degli ispirati assoli di un Moore in forma smagliante. Complessivamente “Synchronized” è forse perfino superiore al precedente “Celestial hi-fi”, perlomeno fino alla settima traccia visto che le altre non ho potuto sentirle. Se già conoscete questa band il disco non vi deluderà ed è da acquistare ad occhi chiusi.
Secondo finale: i Sommi Maestri della clonazione musicale. Questi si mangiano la pecora Dolly a colazione e i Raeliani a merenda. Artisti dell’emulazione, virtuosi dell’imitazione di qualità. Ma l’heavy rock necessita di nuove idee, di stimoli originali, di evolvere ed allargare i propri confini per non incancrenirsi nel riciclo ad uso dei vecchi nostalgici barbosi e dei loro noiosi “bei tempi” della musica. Quindi non ci siamo per niente e “Synchronized” è roba adatta solo ai fissati del retro-rock
Il voto è la media dei due finali.
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