"Everybody got mixed feelings
About the function and the form
Everybody got to elevate from the norm"
L'uscita del nuovissimo
“Clockwork Angels”, ventesimo album in studio dei
Rush, ci fornisce il "pretesto" per rispolverare i vecchi capolavori del trio canadese che per ragioni anagrafiche non sono finiti sulle nostre pagine virtuali.
Uso la parola capolavori non a caso, dal momento che diversi album del gruppo possono fregiarsi del titolo, ricoprendo un ruolo di assoluta importanza all'interno della scena rock mondiale degli ultimi 40 anni per l'influenza che hanno esercitato e per il valore delle composizioni in essi contenuti.
Oggi sono qui a parlarvi di uno di questi dischi, probabilmente il più famoso dei
Rush, certamente uno dei migliori:
"Moving Pictures".
L'album, l'ottava prova in studio per i canadesi, venne pubblicato il 12 febbraio del 1981 e seguiva il precedente
"Permanet Waves" che aveva segnato l'inizio di una nuova fase della carriera dei nostri con il progressivo distacco dal prog rock dei dischi precedenti ed il conseguente avvicinamento a strutture sonori più "semplici" e lineari responsabili, tra le altre cose, di un maggiore successo commerciale per
Gaddy Lee e soci.
Come detto,
“Moving Pictures” prosegue sulla scia della semplificazione intrapresa con il lavoro precedente e segna un utilizzo sempre più massiccio dei sintetizzatori all'interno dei brani che assumono, dunque, una struttura più pop, più radio friendly rispetto al passato.
Attenzione però, non vorrei che le mie parole vi portassero a ritenere la musica dei "nuovi"
Rush più commerciale o più banale di quanto proposto in precedenza, dato che commettereste un grandissimo errore.
I sette brani che costituiscono
"Moving Pictures" mettono in mostra una finissima conoscenza musicale che si dipana attraverso composizioni raffinate in cui propulsione rock, tecnica strumentale sopraffina, gusto melodico, facilità di espressione si mescolano in modo mirabile andando a descrivere un quadro musicale che ha pochi paragoni nella storia del rock.
Il disco viene aperto dal celebre riff di
"Tom Sawyer", uno dei brani più famosi dei
Rush, che ci conduce all'interno dell'album mostrandoci immediatamente un massiccio uso dei synth che si vanno ad affiancare agli strumenti "tradizionali" dando vita, e questo è l'aspetto più significativo dell'album, ad un pezzo che resta subito in mente per le sue facili melodie sebbene la sua struttura non sia semplice per nulla.
La capacità dei
Rush di scrivere brani tanto immediati quanto complessi raggiunge, a mio avviso, l'apice in questo album dal momento che l'integrazione tra tecnica strumentale ed immediatezza pop non sarà mai più tanto efficace.
Il discorso intrapreso con il brano di apertura viene proseguito sulla seguente
"Red Barchetta", canzone che descrive un futuro post-petrolifero dove le vetture "primitive" a benzina sono bandite, brano nel quale il riffing di
Alex Lifeson si fa movimentato e dinamico poggiandosi su una sezione ritmica, come sempre da applausi, e descrivendo una atmosfera molto frizzante, quasi easy rider, che ben si sposa con le tematiche trattate.
Dopo i primi due brani, i
Rush inseriscono un pezzo strumentale.
E qui siamo nella storia.
“YYZ”, titolo che fa riferimento al codice IATA dell'aeroporto di Toronto, è, infatti, uno dei brani più celebri dei nostri, da sempre presente nelle loro esibizioni dal vivo, che da solo può valere una carriera.
Tanto la tecnica quanto il feeling si sublimano nei quattro minuti di una composizione che, sebbene sia breve, riesce a cambiare atmosfera in modo repentino attraverso il continuo e magistrale alternarsi di basso, batteria e chitarra, colpendo l'ascoltare con il suo carico di forte emozione e raffinata melodia.
L'album prosegue inanellando un altra hit del calibro di
“Limelight”, dal ritornello che si stampa immediatamente nella mente, in cui diventa protagonista la chitarra di
Lifeson che unisce riff ed assolo semplicemente splendidi dando anche lui una prova maiuscola della sua classe che prosegue sulla successiva
"The Camera Eye" brano che si riallaccia alla tradizione prog dei canadesi essendo una composizione molto lunga ed articolata, in linea col passato dei nostri. Come sempre la batteria perfetta di
Peart, anche abile paroliere, e la particolarissima voce di
Gaddy Lee mettono la firma su uno dei brani, tutt'oggi, più richiesti dai fan durante i concerti.
L'album si chiude alla luce della sperimentazione aprendo la via a quello che sarebbe stato il futuro del trio:
“Witch Hunt (Part III of Fear)”, con le sue atmosfere cupe, quasi doomeggianti, dipinte dal basso di
Lee e l'uso sempre più evidente dell'elettronica e
"Vital Signs", che da spazio ad influenze raggae perfettamente integrate nel rock del gruppo dimostrandone, ulteriormente, il talento.
Proprio questa vena "sperimentale" da un ulteriore colore al dipinto dell'album fornendogli un sapore gustoso e affascinante.
La grandezza di
“Moving Pictures” si misura, anche, dal numero di brani entrati nel mito, sia di quelli in linea con la tradizione dei Rush del periodo, sia di quelli che ne segnavano lo sguardo verso il futuro, ed è interessante sottolineare come ognuno, in base al suo spirito, può scegliersi il suo pezzo preferito.
Per quanto mi riguarda, all'interno di un album senza tempo e di immenso valore, ho amato, ed amo, proprio i brani più sperimentali ed in particolare trovo che
"Vital Signs" sia un assoluto capolavoro, uno di quei brani che mi mette i brividi ogni volta che lo ascolto. Ma, ripeto, quando parliamo di musica di questo livello, ognuno avrà le sue preferenze.
Quello che mi preme sottolineare è che chiunque ami la musica con la M maiuscola, a prescindere dal genere, deve almeno conoscere un album come questo: nessuno pretende che la voce di Lee o le architetture sonore del gruppo piacciano universalmente, ma sarebbe un delitto non dare una possibilità a questo trio che, ancora oggi, continua a scrivere la storia della musica rock, storia nella quale
"Moving Pictures" è uno degli episodi più luminosi e significativi.
Leggenda.