E giunge anche per la bella Tarja il momento di dire la sua nella noiosa battaglia che ormai da quasi due anni la contrappone ai suoi ex compagni dei Nightwish. Pubblicato poco fa il buono “Dark Passion Play”, che ha messo in luce una forma creativa non intaccata dalla dipartita del suo membro più amato, la band finlandese può ora sedersi comodamente ad aspettare la replica di “My winter storm.”
Invece no, perché questo nuovo episodio solista per la bella Tarja, il primo dopo la fuoriuscita dalla band madre, non ha affatto l’intenzione di contrapporsi ad alcunché.
L’aveva già detto lei in fase d’intervista: questo è un nuovo inizio, totalmente libero da qualsiasi condizionamento del passato e da qualunque voglia di guardarsi indietro.
Per quanto riguarda i risultati… beh, forse non sono io la persona più adatta a recensire questo lavoro. La voce di Tarja, per quanto meriti tutte le lodi che le vengono tributate, non mi è mai andata giù, neppure quando era messa al servizio di album memorabili come “Wishimaster” o “Oceanborn”. Figuriamoci ora, dove il desiderio più che comprensibile di conquistare una platea più vasta la porta a cimentarsi in episodi dal massiccio afflato orchestrale, sostenuti qua e là da qualche chitarra incazzata, giusto per rassicurare quei metal fan che ancora le fossero affezionati.
Il problema, a mio parere, sta tutto qui. Non è tanto che ci sono tanti e diversi songwriter impegnati nel progetto (semmai questo è un vantaggio!), quanto che spesso non si capisce dove si vuole andare a parare. Ci sono episodi immediati, che ricordano i Nightwish senza vergognarsene troppo (vedi il singolo “I walk alone”, o la successiva “Lost Northern star”), oppure ballate sinfoniche dal sapore romantico (l’ottima “The reign”, “The boy and the ghost”, la delicata “Sing for me”), che in realtà occupano più della metà del disco. Il tutto però non appare del tutto bilanciato, come se le radici metal della singer continuassero ad uscir fuori, rovinando la volontà di realizzare qualcosa di veramente originale, sposando il pop con la musica lirica e le orchestrazioni da soundtrack.
E’ la mia modestissima opinione per carità, ma ho la netta sensazione che il passo sia stato più lungo della gamba. Piuttosto sarebbe stato meglio guardare solo al pop da classifica, anche perché nomi come Doug Wimbish o Alex Scholpp facevano propendere ampiamente per questa soluzione. L’impiego delle orchestrazioni è ottimo, unitamente a quello sugli effetti svolto dal guru Torsten Stenzel, ma l’unione dei due elementi non avviene sempre come dovrebbe. Alla fine si ha quasi l’impressione che la magnifica produzione di Daniel Presley abbia fatto la parte del leone, imponendosi talmente tanto da impedirci di concentrarci sulle canzoni. Le quali, chiariamoci subito, ci sono. Gli episodi già citati sono a mio parere i migliori, ma qua e là emerge qualcos’altro degno di nota (l’anthemica “Die alive” per esempio, o ancora “Damned and alive”). Interessante anche la rilettura di “Poison” di Alice Cooper, se non altro perché non se l’aspettava nessuno. Alla fine ci sta anche, ma forse è un po’ troppo distante dallo spirito di questo disco, e andrà bene giusto per essere suonata dal vivo.
Che dire, in conclusione? Che siamo di fronte ad un lavoro coraggioso ed ambizioso, con una delle produzioni più elaborate degli ultimi anni (ma questo ormai sta diventando la norma) ma con solo una manciata di canzoni veramente riuscite ed accattivanti. Sono dati che bastano e avanzano per promuoverlo a pieni voti, ma i punti interrogativi restano parecchi.
Non credo che i metal fan riusciranno a digerirlo: o amate alla follia le sonorità dei vari Epica, Edenbridge o Within Temptation, oppure difficilmente riuscirete ad andare oltre il terzo pezzo. In futuro, speriamo di vedere una Tarja più concreta e decisa, se non altro nella scelta del percorso da intraprendere.