Meno male che ogni tanto escono dischi come questi. Che dimostrano come al giorno d’oggi si possa suonare musica perfettamente rientrante in uno schema predefinito, senza per forza scadere nel plagio o nella più banale scontatezza. I Saint Deamon non sono proprio dei novellini. Il loro batterista Ronny Milianowicz militava nei Dyonisus (ve li ricordate? Erano quella band da cui Luca Turilli ha recuperato Olaf Hayer, il cantante delle sue prime prove soliste), e una volta terminata quell’esperienza, ha deciso di ripartire da capo assoldando nuovi elementi. Il genere proposto non si discosta poi molto da quanto fatto dalla sua prima band, ma bisogna dire che la qualità è nettamente superiore. E’ l’opener “My Judas” a mettere subito le carte in tavola: potenza e melodia combinate insieme in un brano che sa un po’ di Helloween e un po’ di Edguy, un crescendo continuo che ha nelle linee vocali dello straordinario Jan Thore Grefstad (ma da dove è uscito questo?) il suo sicuro punto di forza. Il resto dell’album è un susseguirsi di piccole gemme di power metal europeo, che non dimentica nemmeno la lezione sacrosanta di mostri sacri quali Iron Maiden o Judas Priest (le rasoiate ritmiche di “The burden” ne sono una perfetta dimostrazione). Un piccolo compendio musicale dunque, che nonostante tutto non scade mai nel già sentito o nella piatta trivialità.
Al di là dell’indubbia qualità delle canzoni, stranamente alta, con nessun brano che sia di troppo, a colpire è soprattutto la straordinaria concisione dei nostri: niente suite, niente fraseggi strumentali eccessivamente lunghi, niente orchestrazioni barocche (qualche richiamo ai Rhapsody è presente, ma più nelle melodie che negli arrangiamenti) e soprattutto niente episodi eccessivamente speed.
Niente orpelli scenografici insomma, qui si punta sulla sostanza. E lo si vede anche dalla esigua durata del disco: era ora che qualcuno si decidesse a capire che non serve a nulla registrare lavori dal minutaggio infinito, se poi in genere non si salva più di un brano!
“In shadows lost from the brave” scorre via meravigliosamente liscio dall’inizio alla fine: da “My Judas” a “Run for your life”, passando in mezzo alla straordinaria title track, alla anthemica “Ride forever” (inno power del nuovo anno?), alla epica “No man’s land” (il brano che gli Hammerfall non riescono più a scrivere!), alla struggente ballad “My sorrow”, è tutto un ribollire continuo di emozioni e davvero annoiarsi o mandare avanti è praticamente impossibile.
Se amate questo genere di musica dovete assolutamente buttarvi su questo disco: qui c’è stoffa da vendere, e con un po’ di fortuna un giorno potremmo vedere questi ragazzi scandinavi arrivare veramente in alto…
Ancora una volta, complimenti alla Frontiers Records…
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