C’è stato un tempo, prima delle disillusioni del grunge, delle schizofrenie del nu-metal e delle inquietudini dell’emo, in cui il “mondo” si divertiva con un suono tutto sommato “semplice”, dove il rock ‘n’ roll e il blues diventavano più fisici, s’imbastardivano con il glam e con bagliori punk e diventavano la colonna sonora di una generazione che voleva bruciare le tappe (o sognava di farlo), vivere alla giornata senza troppe paranoie con una musica che sembrava fatta apposta per fare festa e cantare a squarciagola quegli anthem così irresistibili nella platea di un concerto oppure anche solo nella “sacralità” della stanza deputata agli ascolti.
Per parecchio tempo bistrattato, quel tipo di hard-rock dall’importante valenza “ricreativa”, nonostante il periodo storico tutt’altro che “allegro” (o forse proprio come reazione ad esso), sembra aver recuperato una certa credibilità, con una serie di buonissime band che hanno fatto tesoro della lezione degli eighties e sono state anche abbastanza abili da fare in modo di tradurre tale insegnamento in una soluzione espressiva in grado di risultare appetibile e “fresca” anche per chi quel momento storico non lo ha vissuto in diretta e non è quindi “soggiogato” dalla solita canagliesca nostalgia.
E’ proprio a questa ormai piuttosto folta schiera che si aggiungono i protagonisti di questa disamina, i texani Main Line Riders, responsabili di un dischetto che non nasconde neanche per un attimo la sua devozione per AC/DC, Guns ‘n’ Roses, Poison, Hanoi Rocks e Skid Row, ma dimostra anche che i suoi autori sanno in ogni caso scrivere con adeguato temperamento le loro canzoni e infarcirle di melodie catalizzanti e refrain istantanei, proprio come si richiede a chi decida di cimentarsi nel genere.
I loro pezzi migliori si chiamano “One way ticket to love” e “We are the ready ones” (ritornelli da incorniciare), “Throwin’ bones to the wolves” (riff di marca australiana, in un brano che può ricordare anche gli esordi dei Cinderella), “Here I am” (una ballad elettro-acustica tra Poison e Skid Row), “Speed queen” e “I walk alone” (“belle, sporche & cattive”, con i loro sussulti punk-eggianti) e “Pack up your blues” (il titolo dice molto!), senza dimenticare la ghost-track “Shot in the dark”, cover dei Junkyard di Brian Baker, un gruppo troppo spesso ingiustamente sottovalutato nelle ormai frequenti retrospettive di “settore”.
Non siamo al cospetto di un lavoro incredibilmente pregnante e non credo francamente che esso sarà in grado di consegnare al quintetto americano il ruolo di “next big thing” del business discografico che “conta”… tuttavia se cercate un onesto e gustoso interprete di quella scena per molti versi irripetibile, l’acquisto di “Shot in the dark” potrebbe rivelarsi una scelta assolutamente plausibile.
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