Tipica pubblicazione di buon livello ad uso e consumo di nostalgici del rock d’annata. Purtroppo anche un lavoro destinato a lasciare poche tracce, fagocitato dalla voragine schizofrenica che è il mercato musicale odierno.
Si tratta dell’ennesimo esempio di artigianato vintage, realizzato con competenza dal veterano Dome de la Muerte, che alcuni ricorderanno per la militanza nei Not Moving.
Una manciata di canzoni intriganti con sonorità e tempistiche da vinile, stile d’altri tempi impregnato di polveroso feeling anni 60-70. Nessuna parodia d’antiquariato, i temi sono asciutti e convincenti. Tutti i riferimenti alla tradizione rock vengono innervati da piccole dosi di concretezza moderna, mantenendo allo stesso tempo il piacevole retrogusto dei classici pre-digitali.
Troviamo esempi di rock pionieristico e passionale (“Get ready, Gimme some”), delle sue radici bluesy (“Blue stranger dancer, Bad trip blues”) ed ancora delle leggere contaminazioni di pop-psichedelia (“You shine on me”), nel complesso una discreta varietà d’interpretazione unita ad una scrittura snella e piacevole.
Non avendo particolari esigenze d’innovazione, il gruppo ha concentrato opportunamente gli sforzi sull’immediatezza dei brani. Il risultato è un disco scorrevole, intenso e privo di tempi morti, dove anche le atmosfere più vetuste vengono ritinteggiate con pennellate di freschezza, vedi le efficaci versioni di Yardbirds (“Heart full of soul”) e del compianto John Lennon (“Cold turkey”).
Possiamo dunque accostare l’album alle proposte di gente come Black Moses, Gorilla o dei nuovi arrivati The Forty Moostachy. Microrealtà per pochi intimi, per quel manipolo di amatori del rock primigeno che dovrebbero mostrare interesse per la buona prova di Dome De La Muerte ed i suoi The Diggers.
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