Analogamente a quanto realizzato con il masterpiece “Noble savage”, ecco che la Dockyard 1 ristampa anche il quarto albo dei Virgin Steele, quel “Age of consent” spesso colpevolmente sottovalutato nelle analisi retrospettive dedicate ai guerrieri newyorkesi.
Non si tratta, dunque, della semplice riedizione del vinile originale, ma bensì di una nuova versione del precedente reissue licenziato dalla T&T Records nel 1997, il quale prevedeva già una prima ri-masterizzazione (a correggere una produzione abbastanza deficitaria), l’aggiunta di quattro bonus e conferiva una nuova sequenza ai brani (fatto che ho sempre considerato un piccola forma di “violenza”, ma se DeFeis pensa che così il disco funzioni meglio chi sono io per dissentire?).
Anche in questo caso, altri due inediti vengono aggregati al già ricco programma e il booklet presenta una serie di note scritte dal pugno “d’acciaio” del favoloso singer (compreso un interessante track by track), i testi di tutte le canzoni e un gradevole collage fotografico.
Prima di addentrarci nei contenuti del dischetto, ritengo importante inquadrare un po’ meglio il momento storico della sua prima uscita. Anno 1988, mentre i confratelli degli Steele, i Manowar, pubblicano per l’Atlantic il poderoso “Kings of metal” (un lavoro che li riconciliava con quei fans che non avevano gradito completamente le scelte maggiormente “commerciali” di “Fighting for the world”), i nostri erano ancora una volta costretti ad affidarsi ad una produzione indipendente (la Maze Music) con annesse limitate possibilità promozionali, segno inequivocabile di una (criminale!) scarsa considerazione delle loro ingenti capacità espressive da parte del business musicale che “conta”.
Il platter è inoltre caricato della responsabilità di confermare quanto d’eccelso è stato realizzato nel suo illuminato predecessore e nonostante le restrizioni di budget che fatalmente non consentono una registrazione all’altezza della caratura artistica del gruppo, esso riesce comunque a non sfigurare in un confronto così impegnativo.
“Noble savage” resta nell’Olimpo dove dimorano i capolavori della musica, e tuttavia “Age of consent” lo segue abbastanza da vicino alimentato da una vena melodica che acquista anche una maggiore istantaneità, con un brano come “Seventeen” e la cover degli Uriah Heep “Stay on top” che ammiccano a soluzioni armoniche palesemente più “facili” o ancora la suggestiva “Tragedy” e la drammatica “Cry forever”, che mescolano ad arte enfasi, passionalità e immediatezza.
L’incorruttibile spirito eroico si manifesta in tutta la sua magnificenza nell’epica invocazione di “The burning of Rome (Cry for Pompei)”, nella pomposa “The wings of the night” e nell’anthem “We are eternal”, laddove “Lion in winter” ruggisce con forza e saggezza e “Chains of fire” incalza con le sue cadenze di granitico US metal tutt’altro che rivoluzionarie eppure ancora così coinvolgenti.
Tra i pezzi rimanenti, segnaliamo altre due riletture, questa volta dei Judas Priest, “Desert plains” e “Screaming for vengeance”, rese con qualità e personalità, “Perfect mansion”, definito non a caso da DeFeis una sorta di sequel di “The burning of Rome” e recante un’affine incontenibile potenza evocativa, e la titanica e feroce “The serpent’s kiss”.
Insomma “Age of consent” è un altro pezzo assolutamente degno di una collezione di dischi che si rispetti, e pur senza raggiungere i massimi livelli espressivi, dimostrò inequivocabilmente che la fiamma ardeva (e arde ancora oggi!) vivida e rigogliosa. Se ancora non l’avete fatto, impossessatevene senza indugi.
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