Diciamocelo chiaramente,
Axel Rudy Pell è una sicurezza, nel senso che se ci accingiamo a comprare un suo nuovo cd siamo sicuri di non rimanere delusi. La sua musica ormai ha trovato una formula vincente, quindi difficilmente il biondo guitar hero tedesco pubblicherà un brutto disco. Certo è che se questo dà una notevole sicurezza ai suoi fans, è altrettanto vero che è anche sinonimo di un certo immobilismo stilistico. Ma d’altra parte da un’artista che suona ormai da vent’anni ed è giunto al suo tredicesimo album in studio non ci si aspetta di certo grosse novità, giunti a questo punto. Eppure questo “Tales of the crown” nel suo piccolo ha qualche lieve differenza con i suoi predecessori, visto che il lato più spiccatamente hard rock ha preso il sopravvento, questa volta, rispetto a quello più influenzato da un certo tipo di metal, power in particolare. Niente sfuriate di doppia cassa quindi, niente brano veloce in apertura, come orami c’aveva abituato il buon Axel, anzi, questa volta ad aprire il cd ci pensa “Higher”, un mid tempo di classe (un po’ come tutto il resto del disco, d’altra parte), forse un po’ troppo lungo e monolitico per aprire un album, ma pur sempre un buon brano. Già, perché l’hard rock contenuto in queste dieci tracce è di quello che solo i grandi riescono a concepire. Elegante, ben arrangiato, ben prodotto… Inutile rimarcare, quindi, l’ennesima ottima prova del mohicano Mike Terrana dietro le pelli, un metronomo e una sicurezza, così come quella di un Johnny Gioeli particolarmente ispirato. D’altronde la lin-up che accompagnia Axel è ormai consolidata da una decina d’anni, quindi è tutto ben oliato e collaudato. E Pell? Beh, Pell suona come deve… Assoli ponderati e ragionati, niente shred e tanto tanto cuore, esattamente così come il suo idolo e mentore Ritchie Blackmore gli ha insegnato. La sua Fender si fa sentire, sia in fase di riffing che negli assoli, e forse dà il meglio proprio nei brani più d’atmosfera, come la semi ballad “Touching my soul”, dove lui e Gioeli fanno a gara per decidere chi debba essere il più espressivo, o nella successiva e bluesata “Emotional echoes”. Ottimi brani… Qualche episodio più tirato non manca di certo, basti ascoltare “Angel eyes” o “Buried alive”, però, come detto in precedenza, questi risultano anche essere i più scontati e i più banali. Nettamente meglio episodi come la titletrack, la rockeggiante “Riding on an arrow” o la conclusiva “Northern lights”, altra ballad molto toccante. In definitiva un album meno diretto ai giovani power metallers e più a chi riesce ad apprezzare la musica con la M maiuscola, quella forse scritta per chi ha una certa età sul groppone, ma che in fin dei conti resta sempre la migliore e la più inattaccabile. Anni di esperienza d’altra parte dovranno pur significare qualcosa no?
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