Black Stone Cherry: la grande famiglia del rock 'n' roll

Fin dalla prima volta che ho avuto tra le mani un album dei Black Stone Cherry, la classica “lampadina” più che accendersi è saltata in aria: una band che, pur non proponendo nulla di particolarmente nuovo, è riuscita a scrivere un disco più bello dell’altro e a guadagnarsi con sudore e merito un posto di rilevo tra le nuove leve in ambito hard rock.
Dopo averli visti demolire (sì, avete letto bene, è la parola esatta) dal vivo gli Alter Bridge un paio d’anni fa, non mi sono lasciato sfuggire l’occasione di incontrarli nella nuova calata milanese. Poche ore prima del live abbiamo avuto a disposizione una manciata di minuti per chiacchierare con il frontman Chris Robertson e con uno dei chitarristi più scatenati e “mobili” del mondo, il biondo Ben Wells. Ecco cosa ci hanno detto i due ragazzoni del Kentucky, persone disponibilissime e decisamente alla mano!

Ciao ragazzi, iniziamo parlando del nuovo album, Magic Mountain (qui la recensione). Siete soddisfatti dell’accoglienza che ha ricevuto il disco?
CR: Si, devo dire di sì! Sai, in generale quando fai uscire una qualsiasi cosa sei soggetto a critiche, è una regola di questo business, ci sono persone a cui piace e persone a cui non piace. Devo dire che questa volta l’accoglienza è stata quasi sempre positiva, siamo contenti.
BW: Questa volta non potevamo chiedere di più, stampa e fan hanno accolto il disco alla grande.
Credo sia il vostro lavoro più omogeneo, le canzoni scorrono una dopo l’altra in maniera quasi naturale, siete d’accordo?
CR: Sì, la sequenza dei brani è molto azzeccata, devo dire. Perfino le ballad o i pezzi più country stanno bene lì in mezzo. Non so come ci siamo riusciti, ma credo sia semplicemente lo specchio di ciò che siamo: stili e gusti differenti che insieme però stanno davvero bene.
So che è la prima volta che lavorate senza particolari aiuti esterni in fase di songwriting. Come vi siete trovati?
BW: Sì, abbiamo sempre avuto un paio di amici con i quali collaboravamo in passato e anche nei confronti della nostra casa discografica siamo sempre stati aperti a consigli e collaborazioni. Questa volta però abbiamo voluto tornare alle origini e stare esclusivamente tra di noi, è stata una nostra precisa scelta.
Come mai secondo voi una band dallo stile così americano ha tanto successo in Europa? Vedete differenze tra il pubblico dei due continenti?
CR: Oh, qui le persone cantano i nostri pezzi urlando molto più che in America! Ed è strano, perché in fondo l’inglese non è la vostra lingua madre. Negli States il pubblico è molto più riservato in generale. E qui anche nei piccoli club si vendono biglietti, la gente viene per vedere te e si crea un legame tra tutto il pubblico, anche se non conosci chi sta al tuo fianco. Da noi invece si esce con gli amici e se capita si vede un concerto, è proprio un modo diverso di approcciare la musica.
BW: La grande differenza è più o meno questa anche secondo me: in Europa il concerto è ancora un vero e proprio evento, in America è vissuto diversamente. Dipende anche dall’ambiente: qui ci sono ancora riviste, seguito, fan, negli States molto meno.
Quanto è difficile scegliere la scaletta dopo quattro album? In generale vi piace cambiare o tenete sempre la stessa scaletta durante un tour?
CR: Beh, ci abbiamo provato a tenere la stessa scaletta, ma poi cambiamo sempre. Valutiamo anche l’impatto delle singole canzoni o come si incastrano tra loro nelle prime date di un tour e poi decidiamo. Adesso abbiamo tenuto la stessa per quattro sere, ma cambierà ancora.
BW: Ci piace molto suonare le canzoni che più piacciono al pubblico e quelle più conosciute. Quindi sicuramente sentirete sempre i singoli e i brani più ascoltati. Comunque quattro album non sono tantissimi…c’è anche chi ne ha fatti una ventina, per loro è sicuramente più difficile scegliere!
13 anni di carriera, 4 album, tanti tour e sempre voi 4 musicisti nella formazione. Qual è il segreto?
CR: Eravamo amici già prima di iniziare a suonare insieme, questa è la cosa che conta di più. Prima siamo stati amici e poi siamo diventati una band.
BW: Siamo cresciuti insieme nella stessa città e anche i membri della crew sono nostri amici. Nessuno ci ha messo insieme per soldi o per altri motivi, siamo sempre e solo noi, come una grande famiglia.
Quindi vivete ancora tutti in Kentucky?
BW: Sì, nessuno di noi si è trasferito.
Un tour da headliner è una grande occasione ma anche una responsabilità. Credo sia anche stancante a livello fisico e psicologico. In generale vi piace di più essere i protagonisti oppure viaggiare come opening act, suonare meno e godervi di più i viaggi?
CR: Beh, i viaggi riusciamo bene o male a goderceli in entrambi i casi. Tutte e due le situazioni sono buone per noi. Anche fare da supporto è stata una gran cosa. Prendi il tour di tre anni fa con gli Alter Bridge: ci siamo fatti conoscere e tanti loro fan hanno apprezzato la nostra musica, è stato grande, poi con loro c’è anche un ottimo rapporto a livello umano. Certo, forse per un musicista è più divertente e appagante essere headliner, devo dire, ma entrambe le situazioni ci piacciono.
Beh, io tre anni fa ero lì…avete fatto una strage, ragazzi! Uno show pazzesco!
CR: Davvero? Grazie!
BW: Grazie mille! Ancora ti ricordi? Grazie davvero!
Ok ragazzi, il tempo è finito! A voi lo spazio per un saluto ai nostri lettori!
CR: Grazie mille per tutto il supporto che ci state dando!
BW: Ragazzi, siete un grande pubblico! Speriamo davvero di poter tornare presto magari con più date in Italia, è sempre un piacere suonare per voi!
Intervista a cura di Alessandro Quero

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