The Haunted

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Gli svedesi The Haunted rappresentano una delle poche realtà thrash degne di nota nel panorama musicale odierno. Attivi dal 1998, anno del loro debutto discografico su etichetta Earache, durante gli anni hanno raccolto molti consensi, che li hanno infine portati a firmare per la Century Media e a realizzare il loro quarto album in studio, intitolato “Revolver”. Forti del ritorno in formazione del cantante originario Peter Dolving, i cinque musicisti si rendono autori di uno stile potente, moderno e diretto che può fare la felicità di quei thrashers che avevano ormai perso le speranze di ascoltare qualcosa di nuovo.
Abbiamo incontrato proprio Peter Dolving e il chitarrista Anders Björler, due ragazzi davvero simpatici e disponibili con cui abbiamo potuto fare il punto della situazione in casa The Haunted.


Innanzitutto vorrei salutare positivamente l’arrivo di un bel disco di thrash moderno come è il vostro “Revolver”. Per quanto mi riguarda, lo definirei come un lavoro, appunto, thrash, ma con degli elementi distintivi che in alcuni punti ricordano gli ultimi Entombed: voi cosa ne pensate?
(Peter Dolving): “Da un certo punto di vista posso capire la tua analisi, dato che ci siamo sforzati di ripulire un po’ il nostro sound: voglio dire, abbiamo cercato di non mettere troppa carne al fuoco, evitando di registrare una tonnellata di chitarre, oppure quattro voci sovrapposte, preferendo quindi una produzione più essenziale ed un suono più semplice.”
(Anders Björler): “Io credo che, alla fine, un po’ tutti i gruppi svedesi siano in qualche modo legati fra di loro, sia che si tratti di brutal death metal come di altri stili. Per cui è abbastanza normale che in qualche frangente ci siano degli accostamenti con gli Entombed, così come con altre band scandinave.”

Peter, posso chiederti del tuo ritorno dei The Haunted?
(P.D.): “Certo! Sono veramente felice di essere tornato nella band, mi sto divertendo molto e devo dire che la cosa che più mi sta gratificando è il modo in cui i fans mi hanno accolto di nuovo. Sinceramente mi aspettavo più critiche da parte loro, temevo che mi avrebbero rinfacciato tante cose e che magari preferissero lo stile, più brutale, di Marco [Aro, vocalist dei The Haunted dal 1999 al 2003, nda] ma mi sbagliavo, perché i fans sono stati meravigliosi con me! Grazie all’accoglienza ricevuta mi sono sentito davvero a mio agio durante i primi concerti dopo il mio ritorno, tanto che delle volte mi sono quasi commosso!”

Spendiamo due parole sul titolo dell’album, che significato ha per voi?
(P.D.): “L’idea di chiamarlo ‘Revolver’ è partita dal nostro chitarrista Jensen, e devo dire che si tratta di un gran bel titolo, è diretto, efficace, ti fa pensare ed è interessante perché ha praticamente due parole in una! Infatti, se noti, sulla copertina abbiamo evidenziato le lettere centrali, che compongono la parola ‘evolve’ [ovvero ‘evolversi’, nda]. Si potrebbe in effetti vedere come il connubio fra l’impatto (il revolver) e l’evoluzione della nostra musica.”

Nessun legame, quindi, col celebre album dei Beatles che portava lo stesso titolo e lo stesso stile “da fumetto” della copertina?
(A.B.): “Esatto, l’unico omaggio ai Beatles è in effetti lo stile della copertina, che è volutamente in bianco e nero come lo era la loro, ma i riferimenti si esauriscono qui.”
(P.D.): “Io penso anche che sia positivo ricordare quel disco, in fondo si tratta di uno dei migliori album di pop/rock mai realizzati e contiene delle canzoni straordinarie. Secondo me il ‘Revolver’ dei Beatles ha rappresentato il loro punto di svolta, musicalmente parlando, e chissà, questo nostro album potrebbe avere lo stesso significato per noi… Sinceramente lo spero!”

Intanto, una svolta l’avete già compiuta: questo è infatti il primo album per la Century Media…
(P.D.): “E’ vero, e dobbiamo dire che sono cambiate molte cose per noi, durante la sua lavorazione. Voglio dire, la band è sempre la stessa, è ovvio, ma è stato il nostro approccio a cambiare decisamente: questa volta, abbiamo voluto dare fiducia a chi ci sta intorno e credimi, non è stato facile! Questo perché, in fondo, noi avremmo tutti i motivi per essere estremamente diffidenti, considerate le nostre passate esperienze, con questa e con tutte le altre bands di cui abbiamo fatto o facciamo parte. Metaforicamente, direi che il nostro percorso è stato come un campo minato e siamo incappati in ogni possibile mina che avremmo potuto trovare! Siamo arrivati al punto di non fidarci praticamente più di nessuno, perché eravamo davvero stanchi di sentirci promettere mari e monti da tutti e ritrovarci alla fine con un pugno di mosche in mano. Oggi, per fortuna, le cose sembrano andare meglio: per esempio, abbiamo un management degno di questo nome, cosa che in precedenza non era mai accaduta, costringendoci a gestirci praticamente da soli. Inoltre, stavolta ci siamo affidati a due nostri amici per mixare l’album, e pur essendo sempre presenti durante il lavoro, abbiamo dato loro la nostra fiducia e bisogna ammettere che è stata ampiamente ripagata dal risultato ottenuto. In generale, il fatto stesso di cambiare etichetta ci imponeva di dare fiducia ad altre persone, ma adesso siamo contenti di averlo fatto. Sai cosa dimostra che le cose vanno bene? Il fatto che oggi siamo più sereni, ridiamo e ci divertiamo di più fra di noi. E’ vero, la nostra musica sta diventando più heavy sotto certi aspetti, ma la realtà è che decisamente ci divertiamo più oggi di quanto non facessimo all’inizio.”

Mi ha colpito la prima frase di “My Shadow”: “kill me, I’m useless” [tradotto: “uccidimi, sono inutile”, nda].
(P.D.): “Terrificante, eh? In effetti è una cosa piuttosto brutta da dire, ma molte volte mi sono sentito esattamente in quel modo, per una buona parte della mia vita… E’ una sensazione orrenda, quella di sentirsi inutili e non accettati dagli altri, certe volte manca anche la forza di continuare a respirare. Penso che molto sia dovuto alla cultura e alla società che ci circondano, c’è qualcosa di sbagliato se qualcuno deve arrivare a sentirsi così. Tutta la canzone ruota intorno a questa orribile sensazione e al modo in cui la mente umana può rivoltarsi contro sé stessa. E’ certamente un tema molto oscuro da trattare in un disco, ma dal punto di vista musicale abbiamo voluto plasmare il brano in modo che chi l’ascolta, invece di pensare al suicidio, ne tragga l’energia positiva necessaria per uscire da quella situazione. Vedi, noi nei testi trattiamo degli argomenti molto tetri, ma la nostra musica è fatta per infondere forza e dare una scarica di energia: vogliamo che la gente possa sentirsi meglio quando ascolta un nostro disco, è per questo che la nostra musica è così rabbiosa e diretta.”

Voi, come altri gruppi, avete realizzato un live dopo soli due album in studio: non credete che sia una cosa un po’ affrettata e che bisognerebbe avere qualche disco in più all’attivo?
(A.B.): “Sicuramente sì, però dobbiamo considerare che il nostro unico live era stato concepito come bonus da abbinare a ‘The Haunted Made Me Do It’ [album del 2000, nda] . Non si trattava quindi di un prodotto a sé stante, ma di un doppio cd al prezzo di uno. In ogni caso, sono d’accordo con te e anzi, ammetto di non aver mai apprezzato troppo i dischi registrati dal vivo, penso che un concerto vada visto di persona e che un disco non possa ricreare la vera atmosfera live. Ci sono, poi, troppi gruppi che hanno la pessima abitudine di registrare dal vivo e poi ritoccare praticamente tutto in studio. Penso che noi siamo una delle poche bands che non ha truffato la gente in questo senso, poiché non abbiamo ritoccato niente.”
(P.D.): “Già, mentre invece ci sono quelli che in pratica lasciano solo il rumore del pubblico e modificano tutto il resto! Io non capisco queste cose, anzi, penso che se anche ci fossero degli errori durante l’esecuzione, bisognerebbe tenerli così come sono, perché darebbe più l’idea di un vero concerto e non di una cosa artificiale. Ho apprezzato molto la mossa dei Pearl Jam, ad esempio, che ad un certo punto hanno pubblicato ogni singolo concerto del loro tour, rendendo fra l’altro assolutamente inutile l’attività di quelli che si divertono a vendere bootlegs!”
(A.B.): “C’è anche l’esempio dei Deftones, che hanno reso disponibile sul loro sito una vecchia registrazione live, senza costringere nessuno a pagare per averla.”

Questo mi porta a chiedervi come vi ponete nei confronti del fenomeno mp3 e della pirateria multimediale in genere.
(P.D.): “Io sono assolutamente a favore del download degli mp3!”
(A.B.): “Beh, io lo faccio sempre, quindi…!”
(P.D.): “Certo, in fondo lo facciamo tutti, è inutile nascondersi… Forse dicendo queste cose attirerò le antipatie di molta gente, visto che lavoro per una casa discografica e per il copyright. Però non sono d’accordo con chi demonizza questo fenomeno. OK, è indubbiamente vero che scaricare musica illegalmente danneggi le major, ma penso che siamo tutti d’accordo sul fatto che internet ha radicalmente cambiato il modo di intendere la musica e la sua fruizione, e non c’è davvero modo di tornare indietro. E’ ridicolo pensare di fermare il fenomeno degli mp3, gli editori dovrebbero cercare di sfruttarlo a dovere, invece di tentare inutilmente di metterlo a tacere. Ripeto, sicuramente rappresenta un danno da certi punti di vista, ma dall’altro lato assistiamo a cose veramente assurde: guarda Paul McCartney per esempio, uno straordinario compositore, ma anche un eccellente capitalista, visto che ha acquistato i diritti di migliaia di opere altrui. Adesso, il significato del copyright era quello di tutelare l’autore di una canzone e la sua famiglia, ma trovo ridicolo dover pagare i diritti a Paul McCartney o a Michael Jackson per ascoltare delle canzoni che non hanno composto loro! Penso sia più che giusto riconoscere loro i diritti per le proprie opere, ma dover dare dei soldi a loro per qualcosa che non hanno scritto, è assurdo! Siamo arrivati al punto in cui alcune persone, già ricchissime e detentrici di diritti di canzoni altrui, si scagliano contro il download di musica da internet perché fa perdere loro dei soldi che non meriterebbero nemmeno. A parte tutto questo, però, sono dell’idea che gli mp3 non abbiano ripercussioni pesanti su generi musicali di nicchia come il nostro. I metal fans sono generalmente fedeli e se un disco merita, lo comprano, ovviamente se se lo possono permettere: c’è anche da considerare che viviamo in tempi un po’ difficili e capita che un ragazzo non possa nemmeno permettersi di acquistare un cd perché costa troppo. Beh, sinceramente, se fosse per me, gli direi tranquillamente di andarselo a rubare!!! Questo perché credo che ognuno abbia almeno il diritto di ascoltare della musica e per me, che faccio il musicista, andrebbe benissimo così: alla fine, io comunque verrò retribuito per il mio lavoro, nel momento in cui viaggio da un paese all’altro per suonare dal vivo…”
(A.B.): “Secondo me il problema dell’industria discografica è proprio che, in troppi casi, si è persa l’abitudine di suonare dal vivo: un tempo, per scalare le classifiche, non avevi bisogno solo di un buon disco, ma dovevi essere anche bravo a suonare dal vivo, dovevi andare in giro per il mondo e farti conoscere coi concerti. Oggi, invece, sempre più spesso le case discografiche ci vendono un ‘prodotto’ costruito a tavolino. Sarebbe molto salutare se si potesse tornare ai tempi in cui i concerti erano veramente fondamentali.”
(P.D.): “Torniamo sempre allo stesso discorso: la musica, prima di tutto è una forma d’arte e solo in secondo luogo diventa un prodotto commerciale. Quello che sta succedendo oggi, con lo sviluppo spontaneo di una comunità in cui ci si scambia della musica per passione, non può essere ignorato. Il business che ruota intorno alla musica dovrebbe accettare questa che è una realtà inconfutabile e cercare di farne un uso migliore. Il fatto è che le labels possono possedere un prodotto, ma internet no, internet è uno spazio libero, è nostro e non ci possono fare niente! Ci vuole decisamente un’attitudine diversa riguardo a questa realtà, non ci sono dubbi.”

Intervista a cura di Michele 'Freeagle' Marando

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