Ero sinceramente preoccupato. La notizia che gli
On The Rise erano praticamente diventati il progetto personale di Terje Eide e che, con l’abbandono di Bennech Lyngboe, avevano perso il 50% di quel magnifico connubio artistico risultato così emozionante nel debutto omonimo che la band norvegese aveva licenziato nel 2003, non sembrava il miglior viatico per un secondo albo nei confronti del quale nutrivo una rilevante dose di attesa.
Terje evidentemente deve aver raddoppiato gli sforzi, dacché anche da solo, con un “piccolo aiuto da parte dei suoi amici” (vedasi i competenti ospiti del disco), riesce a sfornare un lavoro che mantiene una classe e una freschezza sicuramente probanti anche in un panorama piuttosto florido come quello del rock melodico attuale.
Certo, a ben
sentire, un
po’ la mancanza di Bennech si avverte, soprattutto negli impasti vocali, ma nonostante ciò “Dream zone” si rivela come un ascolto davvero assai appagante, almeno nel settore musicale che vede in gruppi come Toto, Asia, Starship, Le Roux, Styx e Survivor i suoi “storici” numi tutelari, e in Mecca, Work Of Art, Urban Tale e Street Talk alcuni tra i suoi maggiormente credibili epigoni.
E proprio come succede agli appartenenti della seconda categoria citata, anche per gli (?!?) On The Rise non si può parlare di aver “copiato” i maestri, ma di essere a loro affini avendone assimilati i precetti fondamentali, di aver sviluppato uno stile (sufficientemente) personale pur acquisendo alcune delle principali caratteristiche espressive di quei modelli, rendendoli presumibilmente “fieri” di aver contribuito alla formazione di un
soggetto decisamente importante alla necessaria “continuazione della specie”.
Tredici pezzi che sgorgano dalle “fonti” dell’AOR con la purezza e la cristallinità dell’acqua di montagna e dissetano gli appassionati di genere proprio come fa quel liquido per nulla “rivoluzionario” nella sua essenza naturale e tuttavia in fondo l’unico in grado di placare così bene tale necessità “fisica”.
“Lifeline” e “Lost your track” volano alte e “frizzano” alla grande, la title-track si manifesta con una materia leggermente più articolata e sempre piuttosto appassionante, “Edellyn” solletica il lato romantico con la semplicità di una bella melodia e un significante taglio acustico.
Dopo tanta serenità, le chitarre elettriche di “Alive” riportano alla realtà, ma si tratta di una concretezza spettacolare fatta di eleganza e magniloquenza, mentre “In the line of fire” sembra apparentemente stentare a prendere quota fino ad un refrain che esplode senza appelli e si pianta nel cervello, dove presumibilmente resterà a lungo.
Ancora piacevoli emozioni d’ascolto per le graziose “Get out of here” e “Fly away” (altro ritornello “classicamente” fascinoso!), e fanno ancora meglio l’andamento irresistibile di “No time to lose” e della vivace bonus "Find a way”, il gusto estetico superiore della brillante “Why wait another day”, il tocco hard-pomp di “Tomorrow never dies” e il sentito slow “Howling at the moon”, un brano magnetico, suadente e toccante, degno della nobiltà di questo intramontabile modo di fare musica.
“Dream zone”, nonostante le premesse, non delude affatto le mie aspettative, regala profonde soddisfazioni e ci riconsegna un gruppo (?!? parte seconda) in grado di sostenere senza empasse di sorta l’impegnativa “tradizione” che ha scelto di mantenere viva … se poi Lyngboe decidesse di tornare …
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