Dopo aver saggiato l'ottimo stato di forma in sede live lo scorso anno assistendo ad un loro concerto qui in Italia, ero molto curioso di ascoltare il nuovo album dei
Flotsam And Jetsam, storica thrash metal band, purtroppo famosa ai più quasi solo per il fatto di aver ospitato Jason Newsted tra le proprie fila ai tempi del primo album. Effettivamente, però, bisogna anche ammettere che dopo un ottimo sequel e un terzo album non particolarmente brillante, la loro carriera è stata alquanto altalenante, ed è mancato il disco della riscossa dopo il fulminante esordio. Beh, inutile girarci intorno, colpo fallito anche questa volta, visto che “The cold” non mi sembra possa assumersi questo ruolo. Pur essendo un album di classe, a modo suo eclettico ed originale, in grado di dimostrare effettivamente il valore compositivo dei nostri, non colpisce, è troppo poco incisivo e i brani troppo dispersivi. Il sound è pericolosamente freddo e c’è un’eccedenza di influenze che alla fine finiscono solo col creare un pappone poco definito. E la cosa più rilevante è che, nonostante nell’immaginario collettivo i Flots vengano ancora individuati come una thrash metal band, alla fine questo è proprio l’aspetto meno presente nei brani in questione. Per il resto possiamo parlare di un classic metal dalle forti tinte power (quello US, non quello europeo), ma soprattutto di una fortissima vena melodica, che esplode per lo più nei ritornelli, ed è evidenziata da un uso massiccio di arpeggi e parti atmosferiche. Certo, ci sono brani più violenti, come “K.Y.A.” o “”Always”, ma rappresentano la minima parte del tutto. Ovviamente il problema non è di tipo stilistico, è normale che quasi trenta anni dopo la loro nascita i nostri non sentano più quella rabbia giovanile che gli ha fatto partorire i capolavori presenti su “Doomsday for the deciver”, e non è neanche il caso di discutere sul fatto se sia un bene o no evolversi talmente tanto da snaturare il proprio sound. Il vero problema è proprio squisitamente legato ai contenuti: non c’è nessun brano che ti si ficca in testa al primo ascolto, e si e no un paio che lo fanno al secondo, il che sta a significare che dal punto di vista compositivo manca quel quid in più che fa la differenza. Presi singolarmente i pezzi sono anche validi, e, ripeto, ci consegnano una band conscia delle proprie capacità, tesi avvalorata ancora di più dall’ottima prova a livello esecutivo dei singoli, Eric A.K. in particolare, che si rivela essere uno dei migliori metal singer da sempre sulle scene, ma nell’insieme l’album tedia parecchio. Colpa, forse, anche delle eccessive influenze moderne in fase di riffing, che poco si legano al resto delle sonorità, come già detto imperniate per lo più all’US power. “The cold” è un disco che può piacere a chi non conosce i trascorsi della band, o a chi è ossessionato dai modernismi alla Nevermore. Per chi ha seguito la loro evoluzione e comunque è più legato ai canoni classici di questo genere, il consiglio è di evitare di spendere soldi, la delusione sarebbe inevitabile. Con dispiacere non resta altro da fare che constatare l’ennesimo mezzo passo falso da parte della band americana, che, arrivata ormai al decimo full length ufficiale, e dopo cinque anni dal precedente “Dreams of death”, avrebbe potuto giocare un po’ meglio le proprie carte. Occasione sprecata…
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