Viziosi, oltraggiosi, provocatori, precursori di tempi e tendenze, i
New York Dolls furono tra i primi (
tra-vestendosi con abiti e make-up femminili) a portare alle conseguenze estreme il concetto di ambiguità sessuale nel rock, e sotto l’attenta regia dello scaltro Malcom McLaren (che poi avrebbe raffinato la sua abile
strategia con i Sex Pistols), rappresentarono una sorta di “cavia” per il movimento punk, a cui fornirono ispirazione estetica, artistica e attitudinale.
Avrebbero potuto (e forse pure voluto) davvero essere la risposta yankee ai Rolling Stones, con David Johansen e Johnny Thunders in grado di incarnare perfettamente il ruolo di
american toxic twins (impresa
riuscita a Joe Perry e Steven Tyler), ma non furono in grado di far fronte a quell’esagerato
lifestyle che pure tanto li contraddistingueva e che finì per sgretolarli, riservando un tragico destino per parecchi degli originali interpreti di quella spericolata, dilaniata e degenerata mistura di r’ n r’, rhythm ‘n’ blues e melodie tipicamente
british così ben rappresentata dai primi due album in studio del gruppo, veramente fondamentali per comprendere la
storia del rock.
Thunders, Billy Murcia, Jerry Nolan e anche Arthur “Killer” Kane (l’ultima vittima di tale
ecatombe, la cui morte è sopraggiunta quando la reunion del 2004 si era da poco concretizzata) non sono più tra noi, e con loro se ne sono andate le velleità da
lipstick killers di una band che oggi non ha più nulla da dimostrare, lascia ad altri le pulsioni iconoclaste e ritorna alle origini del suono che l’aveva generata.
Coordinato dagli storici Johansen e dal chitarrista Sylvain Sylvain, corroborato da vecchie conoscenze (Frank Infante, conosciuto per la militanza nei Blondie) e forze “nuove” (Brian Delaney e Jason Hill, anche produttore del disco), “Dancing backwards in high heels” ci riconsegna una versione delle
Bambole decisamente “matura” e “confidenziale”, intrisa di blues, funk e rock n’ roll “originale”, esibiti con la consueta dovizia e la caratteristica ironia e sfrontatezza, ma in una formulazione certamente meno elettrica ed impetuosa.
Johansen continua ad essere, benché
avvizzito nel fisico, un front-man davvero carismatico e la sua voce da smaliziato
crooner non può che farla da padrone anche in questo clima lieve e rilassato, in cui “Streetcake” appare come una seduttiva e pastosa forma di autocelebrazione (“
I’m so sweet like the New York Dolls, mellow like a cello like Pablo Casals”), “Talk to me baby” e "I sold my heart to the junkman” sono frizzanti numeri in pieno ardore
sixties (ricordiamo che “Too much too soon” fu prodotto da George “Shadow” Morton scopritore delle Shangri-Las!), “I’m So fabulous” e “Round & round she goes” sono vibranti R & R dominati dai fiati, “Kids like you” si manifesta come una liquida ed ebbra ballata vagamente Animals-
iana, “You don’t have to cry” è un intermezzo sinfonico - acustico di notevole suggestione, “Baby tell me what I’m on” pulsa di pathos urbano e decadente, “Funky but chic”
gioca col funky e con il R & B e “End of the summer” con il reggae, per un quadro complessivo piuttosto gradevole, anche senza la sua primordiale carica furiosa e perversa, presumibilmente poco “credibile” per un gruppo con un “vissuto” così importante.
Molto interessante, poi, il bonus Dvd incluso nell’opera, contenente un gustoso
making of dell’albo, con interviste ai protagonisti e spezzoni delle registrazioni in studio in quel di Newcastle (città che viene gratificata anche da una breve introduzione
turistico-musicale), e stralci (sono presenti in versione video “Looking for a kiss”, "Cause I sez so” e la mitica “Personality crisis”, mentre la stessa "Cause I sez so", "Funky but chic", "Hey Bo Diddley" e "Pills", fungono da commento musicale alla galleria d’immagini conclusiva) di un’esibizione al locale The Cluny, club in cui un folto pubblico accoglie con entusiasmo i “resti” rimaneggiati e ancora parecchio efficaci della leggendaria formazione americana.
Qualcuno potrà rimanere un po’ deluso dalla “nuova” fase dei Dolls, e forse questa “roba” non sarà particolarmente appetibile per le generazioni meno
navigate, ma tutti devono grande rispetto per questi magnifici “perdenti” del rock (senza i quali molti dei campioni dell’hard e del punk rock non sarebbero stati gli stessi!), ancora vogliosi di suonare la musica che “sentono” propria con un’invidiabile classe e convinzione.