The Storm …
mmm … dove ho già sentito questo nome? Non sarà mica il divino Kevin Chalfant che ha rispolverato il vecchio
monicker? Oppure il ritorno di Jeanette Chase e del suo appassionante
AOR pomposo ed enfatico? O invece, forse, si tratterà solo di qualche ristampa che li riguarda? In epoca di rientri “inaspettati” e di polverose riscoperte la cosa non sorprenderebbe per nulla, ma i
nostri The Storm sono in realtà un gruppo “nuovo di zecca” che si affaccia al mercato discografico, dopo qualche anno di “rodaggio” (tra
garage,
demo, aggiustamenti di
line-up e
test live), con questo debutto sulla lunga distanza autointitolato e autoprodotto.
L’introduzione può sembrare un semplice espediente da “recensione”, e tuttavia in questo caso sottintende qualcosa di meno “scontato” … perché rischiare di finire confusi con tante altre
band (oltre alle due citate, chissà quante ce ne sono …) usando una denominazione così sfruttata, soprattutto se si è un gruppo “emergente” che tenta di farsi vedere in una scena sempre più prossima al collasso, rimane uno di quei misteri da consegnare alla famosa “Camera gialla” di Gaston Leroux, che francamente sfugge alla mia comprensione.
E la faccenda assume peso ancora maggiore giacché il quintetto torinese (dei concittadini … Torino
rulez!) merita invece tutta l’attenzione del
popolo di Metal.it, ed in particolare di quella porzione della
gloriosa comunità che apprezza l’
hard rock “classico” e sostiene le formazioni “giovani” capaci di far convivere tale attitudine “contemplativa” con un necessario dinamismo espressivo, indispensabile per evitare quell’effetto “copia e incolla” che svilirebbe l’intera operazione artistica.
Ebbene i The Storm hanno studiato i “testi sacri” consegnati ai posteri da Led Zeppelin, Black Sabbath, Queen, Whitesnake, AC/DC e Aerosmith, li hanno metabolizzati aggiungendo suggestioni di Skid Row, Motley Crue, Great White, Slaughter e Steelheart e poi hanno distillato quel
sapere così fecondo in una sua interpretazione persuasiva e soddisfacente, proprio come fanno tutti i bravi
allievi che vogliono
gratificare ed
esaltare il lavoro dei loro
precettori.
Certo, il disco non è esente da pecche, vedasi una resa sonora e arrangiamenti perfettibili e qualche piccola sfocatura esecutivo - compositiva, ma si tratta di peccati veramente “veniali”, facilmente superabili attraverso un coordinamento produttivo e discografico di livello (lo so, è merce abbastanza
rara, però …) che sia in grado di rendere maggiormente professionale e coeso il suono e di smussare gli angoli di una proposta musicale già piuttosto (con)vincente.
Si parte col “botto” con “Guess who’s back”, un bel numero di granitico
rock duro a cavallo tra settanta e ottanta, “Lost in my own” aggiunge ombre di malinconia al viscerale scenario emotivo, mentre “A dream without awakening” è un gioiellino di ficcante efficacia, contrassegnato da un
chorus “epico” che farà sicuramente la sua figura nei
live-shows.
“Gimme a reason” è un altro episodio animato da un febbrile spirito
eighties, sostenuto da un
rifferama di sicuro effetto, “I will be here”, "We’ll neet again” e “We believe” (suggestivo l’afflato in “crescendo” di quest’ultima …) scandagliano il lato romantico del gruppo con buone qualità e la frenetica “Evil night”, fornisce un’adeguata palestra per le sfumature Plant-
iane del timbro vocale del bravo Kody, il quale offre un saggio delle sue potenzialità anche nella successiva "Rascal”, davvero riuscita nella sua linea melodica che riesce ad essere intensa e ruggente, impreziosita da un tocco vagamente caliginoso.
All’appello mancano ancora le due trascrizioni in madrelingua di “I will be here” e “Gimme a reason”, rispettivamente: “La vita mia sei tu” supera con disinvoltura anche la prova “leziosità” enfatizzata dall’italiano e “Adesso tocca a noi” riferisce con grintosa ironia delle difficoltà che deve affrontare una
fiera e
risoluta formazione tricolore, non ancora affermata, nel dimostrare il suo valore in uno
showbiz pieno di
tribute-band (
dichiarate o meno) … il risultato è complessivamente positivo e non preclude nemmeno questa possibilità espressiva (magari proprio conservando un misto
anglo-italico) alle future prestazioni dell’
equipe sabauda.
In conclusione, il mio suggerimento è di non scambiare
questi The Storm con
altri interpreti del genere, allo scopo di sostenerli e tenerli “d’occhio”, nel caso siate “semplici”
musicofili, o offrendo loro una concreta opportunità di crescita e maturazione, nel caso siate specifici operatori del settore … se lo meritano, senza dubbio.