Un mese.
Un mese di ascolti, a volte distratti, a volte in maniera concentrata, così in camera da letto al buio, come in macchina nel viaggio per andare al mare in questa focosa e calorosa estate.
Un mese per cercare di autoconvincersi che questo "
Dark Roots of Earth" è un grandissimo disco e che una band come i
Testament non può che comporre capolavori o poco ci manca... e invece no.
Giungendo alla conclusione che anche un anno di ascolti ininterrotti non avrebbero cambiato di una virgola il mio giudizio, è dunque il momento di esternarla a voi lettori della gloria che sicuramente siete già da settimane ad esaltarvi con un disco che in realtà è solamente sufficiente ma tant'è... un po' sono i Testament, grandissimo nome da sempre del panorama metal, un po' c'è
Chuck Billy che è grande, buono e simpatico e dopo la malattia specialmente ha conquistato l'affetto di tutti e un po' ormai ci si accontenta di poco per urlare al miracolo, tanto un disco (quando lo si compra...) non dura nel lettore come 20 anni fa, e tra mp3, iTunes e mediafire vari nel giro di una settimana diventa già vecchio e si passa rapidamente a qualcos'altro.
"
Dark Roots of Earth" è un disco passabile, molto ben costruito, molto ben suonato, di maniera, con un indiscutibile savoir-faire ma con una longevità prossima alla classica medusa su una spiaggia d'agosto: le iniziali "
Rise Up" e "
Native Blood" sono banali a più non posso e se (ripeto il SE) possono gasare lì per lì grazie a qualche accelerazione e blastbeat furioso dopo qualche ascolto passano decisamente in secondo piano.
Il sound e la deriva ottantiana di "
The Formation of Damnation" sono state accantonante, ahimè, in luogo di una maggiore apertura al groove, al mid-tempos, sulla falsariga di un album come "
Low" con cui però, ovviamente, non può essere nemmeno creato un vago paragone.
Gli episodi più interessanti paradossalmente sono quelli in cui i Testament sembrano meno legati a stilemi e paiono improvvisare o sbizzarrirsi, come ad esempio nella title track, dove si può apprezzare ancora una volta un Chuck Billy che non urla ma canta, dove le atmosfere tornano magicamente quelle del bellissimo e sottovalutato "
The Ritual" in cui "
Dark Roots of Earth" si specchia a perfezione, specialmente nelle vecchie "
The Ritual" e "
As the Seasons Grey", e dove il vecchio
Skolnick dà lezioni di stile e classe senza bisogno di andare a 200 di metronomo.
Per il resto il disco ondeggia tra qualche buon episodio "classico" come la ferale "
True American Hate" e la conclusiva "
Last Stand for Independence", tra TROPPI TROPPI TROPPI brani grooveggianti, maledetti loro, come "
A Day in the Death" e la noiosissima ed inutile "
Man Kills Mankind".
Chiudono il discorso, in maniera positiva, le "strane" "
Throne of Thornes" e la deliziosa semiballad "
Cold Embrace" (molto era
Practice What You Preach!), piuttosto inusuali per soluzioni ed architetture, ma decisamente interessanti e convincenti, al contrario degli episodi "a-là-Into the Pit", grazie anche ad uno
Skolnick decisamente sopra le righe ed emozionante.
Ispirazione latente, copertina meravigliosa, produzione per l'ennesima volta inadeguata (
Andy Sneap datti all'ippica): così possiamo sintetizzare questo ritorno dei Testament, band IDOLATRATA dal sottoscritto, nella mia personalissima top 3 del thrash metal di tutti i tempi con
Megadeth e
Forbidden, ma che non ha saputo bissare il buon ritorno del precedente lavoro, imboccando a mio avviso una strada in cui non sono maestri ma solo decenti esecutori. Peccato.
In ogni caso vale il discorso fatto quattro anni fa: posseggono più talento i
Testament in un'unghia che tutti insieme i gruppi thrash/core che ci vengono propinati a quintalate da ogni etichetta della Terra.
Ma questo non basta per consigliarne l'acquisto, purtroppo.