Due capolavori assoluti (“Tooth & nail” e “Under lock and key”), un disco appena inferiore (“Back for the attack”) e alcuni lavori “soltanto” tra il buono e l’eccellente (compreso il precedente del 2008 “Lightning strikes again", su queste stesse colonne, a mio parere, ampiamente sottostimato …), fanno dei
Dokken la
quintessenza (beh, in realtà quasi certamente basterebbe anche il
solo masterpiece dell’85 a garantire tale nobile classificazione!) dell’
hard al tempo stesso aggressivo e raffinato e non sono sufficienti alcuni intoppi artistici in una carriera ultratrentennale a sminuire il loro ruolo di sovrani assoluti del cosiddetto
class metal.
I caratteri “forti” e complessi dei membri del gruppo californiano, in particolare dei
mastermind storici Don Dokken e George Lynch, in continuo contrasto durante gli “anni d’oro” della
band, hanno avvalorato, inoltre, la tesi che quando si ha a che fare con dei formidabili fuoriclasse in fatto di talento e tecnica, “l’armonia” della squadra non è un elemento assolutamente necessario per ottenere grandi successi.
La separazione tra i due magnifici “contendenti” si è consumata già da qualche anno, ma è innegabile che ogniqualvolta si deve affrontare una nuova incisione dei losangelini, la mente dei loro fedeli
fans ritorni proprio a quella
partnership così proficua, un elemento basilare in un confronto con un passato talmente
glorioso da rendere poco lucido anche il più obiettivo e pragmatico dei
rockofili, razionalmente ben conscio di quanto sia poco realistico ed inopportuno affidarsi a questo genere di riscontro.
E allora, cominciamo proprio dal confermato Jon Levin ad analizzare questo nuovo “Broken bones” (
oibò, dalla copertina vagamente rievocante l’
artwork di “Wicked sensation” dei Lynch Mob …), rilevandone ancora una volta la classe e la competenza nell’emulazione di quella sofisticata miscela metallica inventata dal suo illustrissimo e “ingombrante” predecessore.
A questo punto, non resta che passare ad esaminare la prova di chi, con la sua scintillante laringe, ha forgiato, in sostanza (anche se la sezione ritmica Brown / Pilson era una roba “da paura”), il restante cinquanta per cento del tipico Dokken-
sound: Don non è più fatalmente quel
vocalist dall’estensione
extraordinaire che sbalordiva e adescava irrimediabilmente il nostro apparato
cardio-uditivo negli
eighties ma ancora oggi trovare un cantante capace di un’intonazione suggestiva, emozionante e policroma come la sua è un’impresa ardua.
Dunque? Tutto bene? Ci apprestiamo a commentare la riaffermazione di un’egemonia inespugnabile? Beh,
non esattamente, in realtà, perché il
songwriting attuale, pur ispirato e non troppo “nostalgico”, manca un po’ di “tensione” e di autorità, perdendosi a volte nei meandri di una “formalità” poco consona ad un monumento del settore.
Nulla di particolarmente “grave”, eppure forse il “segnale debole” di una vitalità in lieve flessione che però non impedisce ad “Empire” di irrompere (un po’) alla maniera di "Kiss of death", alle vibranti melodie della
title-track e delle esotiche “Victim of the crime” e "Tonight” di inebriare i sensi, scavati ancora dal
groove dell’
hard blues aristocratico “Best of me”, mentre "Blind” e anche lo “sconfinamento” stilistico "Waterfall” (con rifrazioni di Kings’X nello spettro espressivo …) vengono invece accolti dai suddetti “giudici supremi” dell’apprezzamento come la gradevole raffigurazione di un quadro sonoro dalle tinte appena sbiadite.
Le atmosfere emozionanti e l’inattaccabile gusto armonico dei migliori Dokken rivivono, infine, in “Burning tears”, in "For the last time”, in “Fade away” e anche in “Today”, una spettacolare rilettura dei Jefferson Airplane, e contribuiscono fattivamente alla riuscita di un albo degno della storia del gruppo, arricchita di un nuovo capitolo capace di onorarla pur senza “sconvolgerla” … chissà … forse per raggiungere tale straordinario risultato Don e Jon dovrebbero cominciare a litigare …